The Imitation Game (2014): Recensione

The Imitation Game, recensione del film diretto da Morten Tyldum nel 2014 con protagonista Benedict Cumberbatch nei panni di Alan Turing

VOTO MALATI DI CINEMA 8 out of 10 stars (8 / 10)

Londra, seconda guerra mondiale, la Germania dà inizio alla sua carneficina maggiore ed il paese è in delirio.
Una stazione, intere folle di bambini si preparano a lasciare la città, tra di loro compare lui, Alan Turing (Benedict Cumberbatch), come un Cristo salvatore, che grazie alla sua genialità riuscirà a salvare la patria, L’Europa, il mondo.

The Imitation Game è un film essenzialmente umano che ci insegna a non essere normali, perché la normalità non salverà il mondo. Ciò che colpisce è la tridimensionalità dei personaggi che dona allo spettatore una capacità di empatia eccezionale: Il protagonista, Turing, è una personalità molto particolare. Riservato, narcisista, a tratti sociopatico; la sua è la corazza di un uomo che a causa della società che lo circonda non è mai riuscito a scoprire più a fondo se stesso, andando oltre la genialità. Lo sviluppo personale maggiore però è riservato al personaggio di Joan Clarke, interpretato da una meravigliosa Keira Knightley. Durante le sue vicende la sua storia potrebbe essere paragonata ad un romanzo di formazione: una donna profondamente insicura, sola, incapace di uscire dalla sua “comfort zone”, grazie alla sua intelligenza e sensibilità, che le permette di comprendere a fondo il genio di Turing, diventa potente, vince la sfida con la vita ed il patriarcato.

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Stiamo parlando di un film che segue un iter narrativo profondamente statunitense ed accademico, si racconta di diritti civili ed emozionalità, ma sempre con eleganza e mai uscendo dagli schemi, con una regia (Morten Tyldum) lineare e dalla mano ferma, mai esagerata, come la matematica, elegante ed integerrima, come se volesse nascondere la mente tormentata del protagonista, mostrando, prima l’eroe e sollo alla fine la fragilità di un uomo incapace di amare.