Kurt Cobain, il 1992 e l’importanza di Automatic for the People

When your day is long
And the night, the night is yours alone
When you’re sure you’ve had enough
Of this life, well hang on…”

Sono le 4 di un pigro martedì pomeriggio. Si, un po’ presto per la seconda dose di eroina endovena della giornata. Ma ormai a chi volete che importi? Il tempo di spingere sullo stantuffo della siringa e sentire il liquido entrare in circolo. Scioglie il nodo del laccio emostatico e sente la pelle del braccio rilassarsi, il sangue tornare a fluire. Con un po’ di valium e fortuna, sarà l’ultima cosa che sentirà. No, non sarebbe giusto. Mette sul piatto il disco e lo lascia andare. Lo lascia andare e pensa “Diamine Mike, hai davvero un gran talento vecchio mio. Davvero un gran talento.”

Si alza dal letto, cammina su e giù per la stanza per qualche minuto mentre quella merda comincia a fare effetto. Apre il cassetto della scrivania vicino alla finestra, prende qualche foglio e una penna e guarda fuori per qualche secondo. Quanto è lontana la gente la fuori? Pensa che gli mancherà quello che vede. Il lago e il vento che increspa lo specchio dell’acqua. Il cielo grigio, l’odore di pioggia e foglie secche, l’aria fredda di primavera che somiglia all’inverno. Il caffè caldo e l’erba sotto i piedi scalzi. L’amplificatore, gli applausi e il sudore. Lo sgabello e il microfono. L’eroina e il sorriso di Courtney. La chitarra e l’odore della pelle di Frances Bean.

Don’t let yourself go
‘Cause everybody cries
Everybody hurts sometimes

Sometimes everything is wrong
Now it’s time to sing along…”

E’ a Frances che pensa mentre scrive. A Frances che corre per il backstage e bacia gli inservienti che la prendono in braccio. A Frances che vuole bene a tutti. E pensa a quanto lui voglia bene a Frances e quanto gli ricordi se stesso alla sua età. Dove sono andati a finire i giorni felici? Dove sono andate le urla dei fan e i sound check con Dave? Non è divertente. Non lo è più da troppo tempo e non è giusto che sia così. E’ ora che tutto questo finisca.

Solo un altro ventisettenne milionario e imbottito di droghe per cui piangere, a cui portare un mazzo di fiori davanti al cancello di casa. Per cui accendere una candela e fare una preghiera mentre in tv arrivano le ultime sui risultati dell’autopsia. No comment. No comment. No comment. No comment.

Servirà una conferenza stampa. Ai ragazzi dispiacerà, ma spera abbiano comunque fortuna. Più di quanta ne abbiano avuta ad incontrarlo. Più di quanta ne avrebbero avuta se lui continuasse. Ma non può. Fanculo, non ci riesce a continuare. E’ debole e stupido e infelice. E lo sa.

When your day is night alone (hold on, hold on)
If you feel like letting go (hold on)
If you think you’ve had too much
Of this life, well hang on”

Mentre finisce di scrivere sente gli occhi pesanti. Poggia la penna sul foglio e si addormenta. E’ quasi buio ormai. Si è fatto tardi. Riprende i sensi. Una fitta allo stomaco sembra divorarlo dall’interno. Il solito buco nero. Quella stronza, sta già svanendo l’effetto. E’ finita. E’ durata abbastanza, anche più del necessario. Basta con le folle in delirio. Basta con i tour mondiali e l’alcool e le ragazze. Quegli stronzi della sicurezza che tentano ostinatamente di non farli uccidere dalla gente che li ama. Se uno vuole un buon lavoro deve farselo da solo.

Scende di sotto barcollando, col cuore che gli esplode dentro al petto. Deve finire il lavoro prima di perdere nuovamente i sensi. Prima che Courtney mandi di nuovo qualcuno a fermarlo. Prima di essere riportato indietro per l’ennesima volta. Va verso l’armadietto blindato nel ripostiglio, infila la chiave nella serratura, il lucchetto scatta e cade a terra e la salvezza è lì a portata di mano. Pensa: “Grazie Dylan, grazie amico mio per questo regalo.

Carica l’arnese, che è scomodo e pesante. Non pensava fosse così scomodo. Magari pesante si ma non avrebbe mai pensato fosse così scomodo da usare. Forse perché non è stato progettato per essere usato in quel modo. Basta trovare la giusta angolazione. Già, la giusta angolazione. Ripensa per l’ultima volta al sorriso di Frances Bean e alla paura di Courtney. Sente freddo.

Anche lui ha paura. Ha paura ed è triste. Sarebbe dovuta andare diversamente. Doveva essere meglio di così. Aziona la pompa, l’otturatore si apre, il cane si arma. Il dito sul grilletto esita un’ultima volta. Poi lo preme fino in fondo. Il rumore del colpo non spaventa nessuno, perché nessuno è lì per spaventarsi. Nessuno è lì. E’ solo. Era solo.

Cause everybody hurts
Take comfort in your friends
Everybody hurts”

E’ il 5 Aprile 1994: Kurt Cobain, frontman dei Nirvana, si fa saltare la testa con un colpo di fucile e segna la vita di un’intera generazione. Lo fa togliendosi la la sua, di vita. Muore solo e imbottito di droga, con la tristezza nel cuore. Ma questa storia la conoscono tutti e col passare degli anni è diventata quasi una storia classica, una cosa tipo Canto di Natale. Una specie di viaggio mistico alla scoperta degli ultimi giorni del solito artista maledetto, ennesimo membro del “Club 27”.

Di questo viaggio tutti si ricordano i passeggeri. Cosa si vedeva dal finestrino, quanto è durato. In pochi però diedero importanza alla musica che suonava in sottofondo. E magari è solo un altro dettaglio della storia che si è insinuato nella verità col passare del tempo. Ma è quasi una costante in tutte le versioni in cui la storia ci è stata raccontata. E una costante diventa storia, alla fine.

Mentre Cobain decideva di spararsi in testa col suo Remington M11 stava ascoltando un disco. Il disco che Michael Stipe e la sua band, i R.E.M., pubblicarono due anni prima, nel 1992: Automatic for the People. Poco prima di morire, Cobain aveva parlato con Stipe, che tra l’altro è anche padrino della figlia Frances Bean. Era sempre stato un suo estimatore e i due, amici da anni, avevano in cantiere di far uscire un album insieme, qualcosa di diverso rispetto alle rispettive pubblicazioni. Un album quasi totalmente acustico che permettesse a Cobain e Stipe di sperimentare oltre quello che le rispettive band permettevano loro di fare. Tutt’oggi il disco di Cobain e Stipe è uno dei migliori album della storia della musica che non sono mai stati realizzati.

Ma sarebbe ingiusto etichettare Automatic for the People soltanto come l’album che Kurt Cobain ha ascoltato prima di morire, anche se detta così potrebbe essere uno dei migliori complimenti che si potrebbero augurare ad un artista. Ci avete mai pensato? Fai uscire un album che entra di diritto nella storia della musica e un paio d’anni dopo una leggenda lo mette su prima di farsi saltare le cervella, portandoselo dietro nei libri di storia. E tutti sapranno che è stato quello l’ultimo suono a entrare nella sua testa, prima del proiettile. Nei secoli dei secoli. Amen.

Come dicevamo AFTP è molto più di questo. I R.E.M. sono al loro ottavo album e vengono dal successo planetario di Out of Time, che vendette 18 milioni di copie solo un anno prima. Sono all’apice del loro successo e probabilmente stanno raggiungendo anche il loro apice artistico. AFTP è un album molto diverso dai loro precedenti. L’intimismo di Stipe viene fuori in ogni traccia come un pugno nello stomaco; la morte, l’accettazione dell’omosessualità, la rabbia contro la società e il dolore per la scomparsa dei genitori sono alcuni dei temi che caratterizzano fortemente la direzione artistica dell’album. Le sonorità e i testi compongono quasi un collage fotografico di situazioni, luoghi e generazioni. Non a caso la fotografia è sempre stato uno degli hobby preferiti di Stipe, che ha sposato un fotografo ed ha pubblicato egli stesso diversi libri di fotografia.

Parlavamo delle sonorità e non possiamo non citare la guest star silenziosa dell’album, quel John Paul Jones (orfano da quasi 15 anni dei Led Zeppelin) che curò l’arrangiamento degli archi in quasi tutte le tracce. E di tracce leggendarie AFTP ne ha prodotte diverse, per non dire tutte e passare per delle groupie. Su tutte Drive, Try Not to Breathe, Nightswimming, Everybody Hurts e Man on the Moon. Quest’ultima appassionato tributo a Andy Kaufman, geniale comico americano forse non troppo conosciuto nel nostro paese, e colonna sonora dell’omonimo film con Jim Carrey.

Strana storia anche quella tra Jim e Andy, soprattutto perché si svolge sette anni dopo l’uscita di Automatic for the People, nel 1999. Strana perché a differenza di Michael e Kurt, Jim Carrey ed Andy Kaufman non si sono mai conosciuti, non hanno nemmeno mai parlato (dato che Kaufman morì di cancro nel 1984) eppure sono stati la stessa persona per molto, molto tempo. Il bizzarro rapporto tra interprete ed alter ego viene analizzato visceralmente nello splendido e doloroso docufilm targato Netflix a riguardo. Uno sguardo su cosa succede nella mente di una persona quando il mondo le sta troppo stretto. Quando la vita le sta troppo stretta. “Bigger than Life” direbbero dall’altra parte dell’oceano. In un momento di forte crisi esistenziale Jim Carrey, all’apice del successo e della notorietà, si rifugiò cuore e anima in Andy Kaufman, riuscendo a sfuggire a se stesso per qualche mese e riportando in vita un personaggio uscito di scena troppo presto e, in qualche modo, a riportare in vita anche se stesso.

Ma noi siamo sempre nel 1992 in compagnia della voce di Michael Stipe e del suo Automatic for the People, unico album dei R.E.M. a cui non fece seguito un tour, al 247° posto nella classifica di Rolling Stones dei migliori album di tutti i tempi. Ma cosa succedeva nel mondo in quell’anno?

L’italia era dilaniata dal dolore per gli attentati che uccisero Falcone e Borsellino. Stava per scoppiare lo scandalo Tangentopoli e all’orizzonte c’era un vento politico che prometteva un cambiamento. Cambiamento che forse, ad oggi, stiamo ancora aspettando. Non se la passavano meglio nel States, stritolati dalla transizione tutta repubblicana in cui Reagan cedeva la presidenza a George H.W. Bush. Un momento di forte tensione politica che proprio Stipe fotografò con la rabbiosa Ignoreland, ottava traccia dell’album.

Per il cinema, invece, fu un anno parecchio fortunato. Le pacchianate degli anni ’80 sembravano ormai un lontano ricordo e le pellicole uscite in quell’anno avevano il sapore delle note intimiste e sofferte di Stipe. Mentre Rob Reiner presentava il suo procedural-drama Codice d’onore, un giovane Quentin Tarantino debuttava con Reservoir Dogs e faceva i conti con un’industria cinematografica che aveva subito tentato di distruggere il suo genio visionario, distribuendo il film in una manciata di sgangherate sale cinematografiche di provincia che totalizzarono incassi ridicoli, costringendo i gestori a smontare il film dopo poche settimane. Michael Mann firmava il film della vita, L’ultimo dei Mohicani e Tim Burton sbancava il botteghino con Batman – Il Ritorno, ancora oggi forse il miglior cinecomic mai creato in quel di Hollywood, con buona pace del miliardario Marvel Universe.

E sempre in quell’anno, il 1992, usciva un film che sapeva come di testamento spirituale. Un qualcosa di epocale, di definitivo. Un’opera che chiudeva il cerchio di un genere che era tramontato vent’anni prima e forse più. Clint Eastwood era ormai considerato un attore ma soprattutto un regista sul viale del tramonto quando fece uscire Gli Spietati. La sua lettera d’addio a un genere, il western, che lo aveva praticamente cresciuto sin dai tempi di quella piccola serie americana, Gli uomini della prateria, con la quale si era fatto notare giovanissimo da uno sconosciuto regista italiano, che per essere inserito nelle locandine dei suoi film doveva adottare lo pseudonimo di Bob Robertson: Sergio Leone. Un altro sodalizio immortale che segnò le carriere di entrambi. Leone fece di Eastwood una star internazionale, nonostante le sue sole due espressioni “col sigaro e senza”.

Una lettera d’addio dicevamo. Dolorosa e scritta da una mano dolorante ma, al contrario di quella di Kurt, non ancora pronta a tirare il grilletto. Il vecchio Clint dirige la sua pellicola con rabbia e decadentismo, quasi volesse mandare un messaggio ad una Hollywood che lo stava congedando, che non credeva che potesse ancora fare la differenza, alla sua età. In quanti si sarebbero immaginati altri 30 anni di carriera? Altri 23 film e una visione filmica sempre al passo coi tempi, lucida e affilata come i lineamenti dell’uomo dagli occhi di ghiaccio? Proprio per Gli Spietati, diventato poi un capolavoro senza tempo, Eastwood conquistò l’anno seguente il suo primo Oscar come miglior regista (il secondo arrivò nel 2005 con Million Dollar Baby).

Ma chi trionfò nel ’92 in quel di Los Angeles?

Show-stealer della serata fu, inevitabilmente, Il silenzio degli innocenti del compianto Jonathan Demme. Uno di quei registi che manca come l’aria nel panorama cinematografico odierno. Demme si portò a casa la statuetta per la miglior regia, a cui seguirono quelle come miglior film, miglior sceneggiatura non originale, miglior attrice protagonista a Jodie Foster e quella, a dir poco incredibile, come miglior attore protagonista ad un monumentale Anthony Hopkins per i suoi appena 20 minuti a schermo. Ancora oggi rimane l’ultimo dei soli tre film che nella storia del cinema si sono aggiudicati i “big five” agli Oscar.

Ci fu gloria anche per l’Italia quella sera, col nostro Gabriele Salvatores che si portò a casa l’Oscar per il miglior film straniero col meraviglioso Mediterraneo. L’Oscar tornava in Italia dopo appena due anni da un altro immortale capolavoro: Nuovo cinema Paradiso, di Giuseppe Tornatore.

Strana storia quella di questo 1992 non credete? Soprattutto perché il nostro racconto era cominciato due anni dopo. E’ stato un viaggio. Un viaggio in cui qualcuno si è perso lungo la strada, qualcun altro la strada l’ha cambiata. Altri hanno smesso di guidare e basta. Se fosse una canzone, il 1992 non potrebbe non essere Drive.

Già, la traccia di apertura di Automatic for The People. Torniamo ancora una volta a lui, l’album che ha caratterizzato questo nostro racconto, che era partito con un colpo di fucile e si è poi esteso come la macchia di sangue che seguì lo sparo.

Forse molti di noi sono rimasti a quel 5 Aprile di 27 anni fa, davanti al televisore, incollati alla radio, mentre passava la notizia. Già, sono passati 27 anni. Kurt Cobain ha passato sotto terra gli stessi anni che ci ha passato sopra. Per lui non devono essere stati 27 anni facili i primi, come per noi non sono stati facili i successivi 27 senza di lui, a combattere con un dolore fantasma mentre abbiamo continuato a chiederci cosa avrebbe potuto fare nel mondo della musica, cosa avrebbe potuto rappresentare per noi nei momenti importanti della nostra vita l’uomo che ha sacrificato tutto. L’uomo che ha venduto il mondo.

Ci sono persone che ti fanno male semplicemente perché lo fanno a se stesse.

Ma pensandoci bene tutti facciamo del male a qualcuno. Tutti quanti noi. Qualche volta.