No Time to Die (2021): Recensione

No Time to Die, recensione del film diretto da Cary Fukunaga, quinta pellicola con protagonista Daniel Craig nei panni di James Bond. Uscito nelle sale britanniche il 28 settembre 2021

VOTO MALATI DI CINEMA 8 out of 10 stars (8 / 10)

Finalmente dopo le numerose posticipazioni causa pandemia da Covid-19 è stato possibile tornare al cinema e assistere a No time to die, il lungo addio (163 minuti circa) dello 007 probabilmente più interessante e amato dell’intero franchise, quello interpretato da Daniel Craig.

Nonostante sia stato definito come un capitolo cupo e crepuscolare (anche più degli altri) da molta della stampa italiana ed estera, il film di Cary Joji Fukunaga, celebre regista, sceneggiatore e produttore americano, noto soprattutto per la prima gloriosa e indimenticabile stagione di True Detective, si rivela l’esatto opposto.

No time to die rappresenta infatti una chiusura dolce, emozionale e romantica del cerchio – e del periodo – Craig/007 particolarmente attesa, soprattutto in seguito ai sorprendenti capitoli Casino Royale del 2006 e ancor più Skyfall del 2012, due film che in qualche modo aprivano alla sfera realmente intima e drammatica del personaggio – e simbolo – 007.

Un’operazione assolutamente scaltra e originale che andava a scalfire e scavare le profondità di un personaggio d’azione presentato nel suo passato cinematografico mai in discussione con sé stesso, privo dunque di debolezze (se non quella per le donne). Un uomo dalla morale di ferro e dalle mille sorprese, nonché ideale incarnazione di quel machismo elegante e prepotente, nonché di tutta quella virilità ed estetica forte e per certi versi distaccata nata in seno al personaggio letterario creato nel 1953 dallo scrittore britannico Ian Fleming, il padre per eccellenza di James Bond.

Questo percorso di trasformazione ha inizio nel 2006, con l’uscita nelle sale cinematografiche globali di Casino Royale, l’esordio di Craig nei panni di James Bond, diretto da Martin Campbell e scritto dal duo Neal Purvis-Robert Wade in compagnia del noto sceneggiatore e regista Paul Haggis (Crash; Nella valle di Elah; The Next Three Days).

Casino Royale in qualche modo stravolge regole ed equilibri dell’universo cinematografico e letterario 007 proprio nella sua scelta di rappresentazione virile e machista fortemente drammatica poiché in crisi, colma di debolezze e fin troppo aperta all’amore e dunque alla perdita di esso, tanto per mano del villain (in quel caso Le Chiffre, interpretato efficacemente da un Mads Mikkelsen allora non così noto come oggi, ma assolutamente memorabile nel suo sadismo malato e gelido), quanto per la donna di turno (la fragile seppur pericolosa Vesper Lynd, interpretata da Eva Green).

James Bond (Daniel Craig) prepares to shoot in ..NO TIME TO DIE, ..a DANJAQ and Metro Goldwyn Mayer Pictures film…Credit: Nicola Dove..© 2019 DANJAQ, LLC AND MGM. ALL RIGHTS RESERVED…

La rilettura del personaggio James Bond trova però due intervalli nel corso del periodo Craig, nel 2008 con il Quantum Of Solace di Marc Forster, un fiacco seppur spettacolare capitolo action (e nulla più) dello 007 più classico e nel 2015 con Spectre di Sam Mendes, altro film pressoché privo di ricerca e interessamento alla novità del personaggio cominciata come già detto nel 2006.

Tappa importante e per certi versi fondamentale del periodo Craig è invece rappresentata dal notevole Skyfall di Sam Mendes distribuito globalmente nel 2012.

Skyfall è infatti un capitolo destabilizzante e assolutamente inaspettato poiché prima ancora di farsi cinema action ad alto tasso adrenalinico e spettacolare, si interessa al dramma e all’analisi cupa e crepuscolare delle origini tragiche e nebbiose di James Bond. A tal punto da presentarlo distrutto e in crisi sia con il suo passato, sia con il suo presente e per questo incapace di superare efficacemente i test per il suo reintegro nell’MI6.

Lo 007 di Skyfall è perciò un uomo finito e perduto che soltanto tornando al suo passato (e dunque alla magione nebbiosa chiamata Skyfall) può ritrovare sé stesso, nonché la speranza per risvegliarsi e rivivere.

Sono trascorsi nove lunghi anni da quel film, nonostante il già accennato “capitolo d’intervallo” Spectre del 2015 e ancora una volta con l’uscita nelle sale cinematografiche internazionali di No time to die, tutto o quasi è cambiato.

Avevamo lasciato Bond ad una tranquilla pausa lavorativa, con un amore ritrovato (seppur travagliato) per la bella e malinconica Madeleine Swann, interpretata da una dolente e magnifica Léa Seydoux ed è proprio in questo amore finalmente rilassato e pacifico che ritroviamo Bond nelle prime sequenze di No time to die in una Matera per certi versi metafisica e romantica, seppur apparentemente post apocalittica, silenziosa e inquietante.

C’è troppo silenzio e c’è troppa dolcezza in questo primo incontro (dopo così tanti anni) tra il pubblico (fan, critica ecc) e la coppia Bond/Swann. Il presagio di sventura, dramma e caos è infatti fin troppo evidente e si muove silenzioso come un’ombra su momenti di dolcezza e piacere carnale che difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare dal Bond distrutto (e distruttivo) post Casino Royale e Skyfall, eppure è così, ed è un piacere da godersi appieno seppur per poco tempo.

Tutto ha inizio con un ritorno alle origini e ad un’esplosione reale, ma anche psicologica ed emotiva che si abbatte sul corpo chiaramente invecchiato e segnato di James Bond/Daniel Craig. Un’esplosione rompe la calma, la tranquillità e il silenzio.

Ecco dunque il conflitto iniziale seguito da una memorabile sequenza action fortemente spettacolare e calata come è sempre stato nei capitoli 007 di Craig nell’immaginario geografico, in questo caso nelle strette e labirintiche seppur meravigliose stradine della Matera come già detto metafisica.

Safin (Rami Malek) in NO TIME TO DIE, a DANJAQ and Metro Goldwyn Mayer Pictures film.
Credit: Nicola Dove
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Billie Eilish con la sua dolente e per certi versi sussurrata No time to die rompe l’azione e ci riporta al silenzio e alla tranquillità. Bond è in Giamaica e si gode l’allontanamento dai pericoli del mestiere, fino a quando ancora una volta il passato torna a cercarlo, nei panni dell’agente CIA, nonché vecchio amico Felix Leiter (Jeffrey Wright) che abbiamo conosciuto nel primo capitolo del 2006, Casino Royale.

Bond deve tornare al lavoro, il mondo è in pericolo.

La responsabilità di Fukunaga e dei suoi sceneggiatori Purvis, Wade e Waller-Bridge era decisamente elevata, rispetto non soltanto ad un discorso commerciale e dunque di box office, ma anche e soprattutto alla corretta chiusura del cerchio narrativo del periodo Daniel Craig/007, poiché come tutti sanno l’interprete britannico desiderava con questo film concludere il suo percorso nei panni del celebre agente MI6, prima di perdere quella credibilità fisica e forse psicologica centrale per il personaggio cinematografico James Bond.

Le attese non sono state deluse, al contrario, decisamente giustificate e superate. No time to die è rispetto ai capitoli precedenti un film imponente, verrebbe da definirlo titanico per quanto di enormi dimensioni a partire da un respiro narrativo mai così dilatato (la durata di 163 minuti), nonché per le sue scenografie e ambientazioni per certi versi surreali, fantascientifiche spettacolari.

La struttura narrativa è già di per sé la perfetta chiusura del cerchio, poiché il film comincia con un potente flashback (così come iniziava Casino Royale), presenta villain senza occhi o comunque con menomazioni di essi (ancora una volta Le Chiffre di Mikkelsen), volti tremendamente sfigurati (Ernst Stavro Blofeld che ci ricorda prepotentemente il Raoul Silva di Javier Bardem), le campane di Quantum of solace e la riflessione attorno al passato che torna ferocemente stravolgendo il presente come già avveniva per Skyfall e Spectre.

Nonostante la durata decisamente inaspettata per quanto estesa, No time to die si rivela il veicolo perfetto per l’addio di Daniel Craig al suo James Bond spietato e violento, ma anche dolce e travagliato, in preda alla malinconia e alle ombre di un passato sepolto nella nebbia che torna ancora una volta nel corso di una delle scene action realmente memorabili di questo film, calata questa volta nelle lande e nel fitto delle foreste norvegesi.

Il ritmo è serrato e l’adrenalina è gestita ai limiti della perfezione poiché intervallata in modo realmente funzionale, soprattutto in termini di scrittura da momenti di una comicità, rilassatezza e leggerezza francamente inaspettati e legati a quell’immaginario che la sceneggiatrice e attrice Phoebe Waller-Bridge ben conosce, a partire da Killing Eve e poi ancora Fleabag.

Fukunaga poi lavora in termini di regia come nessun autore dei precedenti capitoli è riuscito a fare, ossia gestendo l’azione restando estremamente vicino ai corpi, in modo sempre fluido e dinamico, tanto da calare lo spettatore al centro del realismo cinetico e drammatico dell’azione in tutto e per tutto permettendogli di godere e sentire il panico, l’ansia, il pericolo e la spettacolarità della coreografia action e della morte che come un’ombra cupa (e talvolta invisibile) permea l’intero film, passando di corpo in corpo.

No time to die è perciò l’epilogo e l’addio perfetto di un interprete al personaggio e all’universo che nel corso di quindici anni ha plasmato radicalmente come nessuno prima di lui si era ritrovato a fare. Il suo è un addio lungo, dolce e fortemente malinconico che difficilmente scorderemo.

Dalla Spia che mi amava alla Spia che mi ama, Daniel Craig chiude il cerchio attorno al James Bond probabilmente più istintivo, emozionale, sincero e intimistico dell’intero franchise letterario prima e cinematografico poi.

“Non c’è bisogno di andare più veloce. Abbiamo tutto il tempo del mondo”

Credit photo: Nicola Dove..© 2019 DANJAQ, LLC AND MGM. ALL RIGHTS RESERVED…