La legge di Lidia Poët (2023): Recensione

La legge di Lidia Poët (2023): Recensione

La legge di Lidia Poët, recensione della Serie TV con protagonista Matilda De Angelis. Disponibile su Netflix a partire dal 16 Febbraio 2023.

VOTO MALATI DI CINEMA 7.5 out of 10 stars (7,5 / 10)

La legge di Lidia Poët è la serie tv che l’Italia meritava di guardare nel 2023. Perché?
Partiamo dal principio.

La telecamera ci porta nella Torino del 3 novembre 1883, e un femminicidio è appena stato consumato. La madre del presunto colpevole si rivolge all’avvocata donna Lidia Poët.
Questo è l’incipit ricorrente di ogni episodio -autoconclusivo- della serie, in cui però si snoda di puntata in puntata la trama amorosa e legale della protagonista.
Sì, perché Lidia Poët, per quanto venga romanzata nella resa cinematografica, è esistita davvero, ed è stata la prima donna avvocata del Regno d’Italia.

Tracciata la trama generale, entriamo ora nel vivo della serie.
La regia, firmata da Matteo Rovere e Letizia Lamartire, è impeccabile: degna di essere annoverata tra i casi più aulici della serialità italiana.

L’attrice protagonista, Matilda De Angelis, ha impersonato l’eroina ante litteram italiana con un’interpretazione magnifica, consacrando il personaggio ad icona, un pò come la Maria Antonietta -interpretata da Kirsten Dunst– di Sofia Coppola.

Sguardo fiero, pensiero razionale, parole soppesate nel contenuto e nell’esposizione. Lidia è impeccabile: non sbaglia una battuta, la pronuncia a mezza bocca, lentamente, come se ogni frase detta avesse una sua dignità, non fosse scontata e dunque fosse il risultato di uno studio sapiente e di una consapevolezza del ruolo femminile nella società.

Fatti gli onori del caso, ora lo posso ammettere però: presentarci l’eroina della serie con un plateale orgasmo è stata una caduta di stile, o un ingenuo errore forse. O ancora, semplicemente un’incertezza: una scelta che si stanzia nel limbo tra il voler subito presentarci la donna con la sua emancipazione sessuale, e il costringerci a guardarla – ancora una volta – come un oggetto sessuale, perpetuando il male gaze coniato il secolo scorso da John Berger.

Il dubbio in realtà si scioglie da solo guardando l’intera serie. Episodio dopo episodio appare evidente come lo sguardo sulle vicende e i personaggi sia prettamente maschile: la società è arretrata (non troppo diversa dall’Italia di 140 anni dopo), profondamente patriarcale, e la protagonista vi si muove in un’eterna battaglia manicheista: l’emancipazione femminile contro l’opprimente egemonia di pensiero e di fatto degli uomini.

Uomini che ricoprono ogni posto di potere nelle vicende: il fratello avvocato di cui Lidia sarà apprendista, il giudice, il procuratore, lo spirito del padre morto che ancora esercita la sua influenza, e infine l’uomo giornalista di cui la protagonista si innamora. E sono gli stessi uomini contro cui Lidia combatte per affermare la propria indipendenza, che la aiuteranno nella sua battaglia.

Le altre donne sono invece pedine di una partita di scacchi che resteranno nella casella di partenza fino alla fine: persino la nipote che tenta una sua ribellione famigliare, al termine del gioco torna nella prima casella, quella in cui la società dell’epoca la vuole.

Ma allora, perché avevamo bisogno di “La legge di Lidia Poët”?

Per due ragioni.
La prima è di carattere prettamente tecnico e stilistico: i dialoghi e la sceneggiatura sono arguti, intelligenti, divertenti anche se a tratti anacronistici -faccio fatica a pensare che nel 1883 le persone imprecassero con dei “cazzo” continui-, e la regia è sapiente, indiscreta e perfettamente coerente con il prodotto cinematografico nel suo insieme. Inoltre, ripetiamolo, Matilda De Angelis è stata la star indiscussa della serie, dimostrandoci ancora una volta la sua bravura e il suo talento nel dare vita a personaggi indimenticabili.

La seconda ragione è invece di carattere interpretativo e filologico.
Il femminismo che impera nella serie è eroico, immaturo, a tratti adolescenziale, ed è esattamente la tipologia di femminismo che ci meritiamo di vedere nel 2023, perché è l’unico che siamo in grado di digerire senza dolori di stomaco.

Un femminismo svantaggiato, marginale, quello per cui facciamo il tifo perché sappiamo in partenza che non potrà mai vincere, perché lo diamo per sfavorito in una lotta impari, perché romanticizzato e molto lontano dalla realtà. Infine, perché sappiamo che non potrà mai cambiare davvero la società. E allora finiamo per sperare che Lidia non parta, che voltandosi indietro scelga l’amore all’indipendenza.