La casa di Jack (2018): Recensione

La casa di Jack (2018): Recensione

La casa di Jack (titolo originale: The house that Jack built), recensione del film diretto da Lars von Trier con protagonista Matt Dillon. Uscito nelle sale francesi il 17 Ottobre 2018.

VOTO MALATI DI CINEMA 8.5 out of 10 stars (8,5 / 10)

The house that Jack built è stato per diversi anni nella mia wishlist, fino a quando ieri ho deciso di vederlo.

Sono tre le matrici del sussulto che mi ha trattenuta dal premere Play:
-il genere thriller/horror. Oltre a non essere fan del genere, sono solita tenermene alla larga per paura.
-la fama. Il film è stato acclamato dagli addetti ai lavori come “il capolavoro” di Lars von Trier, per cui ho desistito dal consumarlo subito e ho preferito attendere il “momento giusto” per godermi il cult.
-la reazione del pubblico. Critici e redattori giornalistici che hanno assistito alla proiezione della pellicola al Festival di Cannes, hanno affermato che più di un centinaio di spettatori sono letteralmente “fuggiti dalla sala”, disgustati e gridando all’orrore e all’oscenità.

Insomma, diciamo che ho avuto i miei buoni motivi per desistere, fino a che la fama del capolavoro ha preso il sopravvento e ho ceduto.

Quindi, La casa di Jack è davvero il capolavoro del regista danese più controverso che conosciamo?
Secondo me no, e non è neppure il più iconico. Tuttavia è il prodotto cinematografico del regista più introspettivo e limato: costruito a regola d’arte.

Jack è un ingegnere ma ama definirsi architetto, e sta lavorando alla costruzione dei suoi sogni. Tuttavia ogni volta qualcosa va storto: la costruisce e la butta giù una, due, tre volte.
Jack è convinto che i materiali con cui si edificano strutture e architetture godano di una volontà propria in grado di determinare la resa finale dell’opera.
Jack è un serial killer, seleziona quasi con indifferenza le sue vittime, ma ha un debole per le donne che considera “stupide”.
Jack è uno psicopatico con un disturbo ossessivo compulsivo per la pulizia.
Jack è il protagonista della narrazione, che si sviluppa a due ritmi.

Il primo ritmo è scandito dal dialogo tra Jack e Verge, che oscilla tra una pseudo seduta psichiatrica e un serrato botta e risposta (degno di Piero e Alberto Angela) colto, filosofico, manicheistico. Arte, Dio, bene e male, amore, famiglia, leoni e agnelli sono solo alcuni dei temi esplorati.
La narrazione incalza nel secondo ritmo e muta in una meticolosa, psicotica, agghiacciante collezione degli omicidi commessi dal protagonista.

Jack è Matt Dillon, in quella che personalmente definisco la sua interpretazione più iconica, egregiamente accompagnato nel suo viaggio da Bruno Ganz nella sua ultima performance.

Jack e Verge altro non sono che le due anime del regista: l’ombra e la luce che, in tensione tra loro, si scontrano e cercano di avere la meglio sull’altra. Ed è proprio in questa complessità che si crea la vita e l’arte. von Trier dialoga intimamente con se stesso, superando ancora una volta i limiti imposti dal buon senso e dalla morale collettiva, infrangendo tutte le regole e toccando vette metafisiche altissime.
Il rapporto tra arte e morale si dissolve con l’accettazione della mostruosità insita nella natura umana e si fa sublimazione artistica. Così la scissione anima-corpo si risolve in un’originalissima teoria: l’inferno ospita il corpo, il paradiso accoglie l’anima.

Ora posso ammettere che durante le due ore e mezza di pellicola ho fatto il mio ingresso nel sistema valoriale creato dal regista e ho lasciato fuori la morale e l’etichetta umana. Le atrocità e le barbarie finiscono per diventare grottesche ai miei occhi, le situazioni surreali e disumane visione delirante e psicotica di una mente fortemente complessa. Ho adottato il punto di vista suggeritomi dai compagni di viaggio Jack & Verge (rivisitazione di Dante e Virgilio ne La Divina Commedia) e ho tralasciato le questioni morali: come siamo soliti fare dinanzi a un’opera d’arte, ci astraiamo dalle vicende umane lasciamo che il simbolismo prenda il sopravvento sulla realtà.