È solo la fine del mondo (2016): Recensione

È solo la fine del mondo (2016): Recensione

È solo la fine del mondo (titolo originale: Juste la fin du monde), recensione del film diretto da Xavier Dolan. Uscito nelle sale francesi il 21 Settembre 2016.

VOTO MALATI DI CINEMA 8 out of 10 stars (8 / 10)

Nel 2016 Xavier Dolan – noto anche come “l’enfant prodige” – incanta Cannes e si aggiudica il Grand Prix Speciale della Giuria con una pellicola basata sulla pièce teatrale “Juste la fin du monde” di Jean-Luc Lagarce.

È solo la fine del mondo è un ritratto famigliare, proprio uno di quelli che i reali del XIX secolo commissionavano ai più noti pittori dell’epoca con lo scopo di immortalare in una sintesi artistica l’affetto, i sentimenti e le emozioni di una famiglia. Ancora, è una vista privilegiata sull’andirivieni di vite e sui moti sentimentali che ne scaturiscono.
“Esiste una serie di motivazioni che ci appartengono, che riguardano soltanto noi e che ci spingono a volte a partire senza voltarci indietro. Allo stesso modo esiste una varietà altrettanto grande di motivazioni che ci spingono a tornare.”
Un monologo apre il sipario sulla famiglia di Louis, composta da persone che non si sono mai comprese l’una con l’altra, e che tuttavia pretendono, in nome del vincolo di sangue, di essere viste e in qualche modo legittimate.

Louis (Gaspard Ulliel) è il secondogenito e il preferito di tutti: il figlio e fratello lontano che scrive sceneggiature di mestiere e invia puntualmente cartoline ai famigliari.

Antoine è il maggiore, interpretato da un Vincent Cassel febbrile, turbolento e volgare.

Suzanne (Léa Seydoux) è la piccola di casa che ormai è abbastanza adulta da dover lottare con i suoi incubi e drammi del passato.

Marion Cotillard è Catherine, la moglie di Antoine, ultimo baluardo di equilibrio e senno in casa Knipper.

La padrona di casa è Martine (Nathalie Baye). Incarna la madre squilibrata, che vive ancorata a un passato che ha la forma di domeniche di gita in famiglia: siamo di fronte al suo personalissimo modo di rimettere insieme frammenti rotti e resti di un dolore che le impedisce di abbracciare chiunque, “tranne Louis”.

Infine c’è la casa, il piccolo paese alla fine del mondo, che è a tutti gli effetti un membro della famiglia. Uno spazio fisico e delimitato che contiene ricordi, perdite, gli ultimi filamenti di lacci che sono sul punto di cedere.

La regia e la fotografia collaborano sinergicamente in questa pellicola per costruire una grammatica visuale ed emotiva che diventa linguaggio, colma i silenzi, smentisce i fraintendimenti e traduce l’incomunicabilità del parentado.

La cinepresa di Dolan penetra, intriga, incalza i personaggi e vi si arresta alla distanza di pochi centimetrii: ne possiamo cogliere il più discreto dettaglio, interpretare le microespressioni e indagare l’emotività.
Oltre allo spazio, l’enfant prodige dimostra di saper comunicare sapientemente anche attraverso il tempo: l’espediente di un arco narrativo che dura quanto una domenica in famiglia scandisce i colori e il climax emotivo del film.
All’alba le emozioni si rilasciano, si accendono col salire del sole, poi tentennano e alla fine si incendiano assieme al tramonto. (Consiglio caldamente di prestare attenzione a questo climax durante la visione del lungometraggio, sarà una piacevole sorpresa per i sensi, ndr)

Il cast è misurato, le interpretazioni intense e i monologhi energici, onesti e funzionali. Gaspard Ulliel si è aggiudicato il Premio César nel 2017 con un numero davvero esiguo di battute: la sua prova attoriale si è piuttosto tenuta nel campo della recitazione non verbale. Hanno vinto il vigore del suo sguardo, l’annichilimento delle speranze che si spegnevano sul suo volto, la prossimità alla fine che si imprimeva sul suo corpo.

È solo la fine del mondo è un gioiellino della cinematografia intima, quella in cui si scoprono altarini, sentimenti e profondità taciute. Assolutamente da recuperare.