The Iron Claw (2023): Recensione
The Iron Claw (2023): Recensione
The Iron Claw, recensione del film diretto da Sean Durkin con protagonista Zac Efron. Uscito nelle sale statunitensi il 22 Dicembre 2023.
VOTO MALATI DI CINEMA (9 / 10)
La famiglia è come una mano che si apre per accogliere e si chiude per proteggere e sa farsi anche pugno, se occorre, per difendersi attaccando chi la minaccia dall’esterno. La metafora della mano in questo caso è calzante solo per indicare la compattezza e l’ordine gerarchico della famiglia Von Erich. Questa famiglia ha il piglio di un’accademia militare e al padre “Fritz” ci si rivolge con l’appellativo freddo e distaccato di Signore. I fratelli Kevin (Zac Efron) Kerry (Jeremy Allen White) David (Harris Dickinson) e Mike (Stanley Simons) appartengono ad una famiglia tossica e disfunzionale che ha avuto fama e successo nel mondo del wrestling professionistico negli anni ottanta.
Il capostipite è stata una gloria del passato e spinge ognuno dei suoi quattro figli maschi ad intraprendere la sua stessa carriera, cercando in tutti i modi di raggiungere fama e denaro.
Il film non presenta eccessi e non ha derive gratuite di violenza. Sebbene racconti il mondo del wrestling non è incentrato esclusivamente sui combattimenti, sui muscoli e il sangue ma riesce a mantenere un equilibrio perfetto tra dramma pubblico e tragedia privata legata ad una maledizione che si pensa la famiglia si porti dietro da tanto tempo.
Nei panni di uno dei protagonisti, il maggiore dei figli Kevin, dopo la scomparsa prematura del primogenito Jack a soli 6 anni è uno Zac Efron visibilmente trasformato nel fisico per aderire più fedelmente alla parte del lottatore professionista. Per il ruolo, che egli stesso qualifica come il più impegnativo affrontato fino a questo punto della sua carriera, ha dovuto costruire un fisico muscoloso e possente e riuscire nel contempo a esprimere il dolore profondo e il travaglio interiore di un ragazzo forgiato a immagine e somiglianza di un padre padrone ma che saprà salvarsi e diventare un genitore migliore di quello che ha avuto in sorte.
In questo processo di affrancamento non sarà in grado di portare in salvo nemmeno uno dei suoi tre fratelli minori al quale è legatissimo e che ama più della sua stessa vita.
The Warrior (questo il titolo italiano) – The Iron Claw (questo il titolo originale che prende spunto da una mossa che deve la sua invenzione a questa famiglia di lottatori che la propose nei suoi numeri sul ring) è un film duro e intenso, straziante per il dramma vero che racconta ed estremamene attento a non eccedere in violenza superflua e in inutili lungaggini che lo avrebbero appesantito rischiando di annoiare. È equilibrato nella struttura, per nulla ridondante, scorrevole e alquanto delicato.
Il regista Sean Durkin ha deciso di escludere dalla narrazione della vicenda reale uno dei figli di Jack “Fritz” e si concentra sulle gesta dei quattro dei reali sei. La storia vera di questa famiglia, mito e leggenda del wrestling professionistico americano degli anni ottanta, è stata ancora più dura e triste rispetto a quanto proposto sullo schermo.
Scelta premiante per non appesantire un racconto cupo e denso che sarebbe risultato decisamente troppo impattante. Invece il film mantiene, pur nella sua drammaticità che non risulta affatto mutilata né tantomeno scalfita, una grazia e una levità che gli giovano molto.
Un plauso e un elogio speciale va sicuramente rivolto a Zac Efron che con questo personaggio sdogana finalmente il suo talento dopo la zavorra di “High School Musical”. Il suo personaggio è la colonna portante e la minima incertezza avrebbe fatto vacillare l’intero impianto che invece si mantiene ben saldo.
La pellicola risulta molto credibile in tutti i combattimenti realizzati sul ring e ha il potere attrattivo di coinvolgere anche chi non ama questo tipo di spettacolo. Durkin, pur senza raggiungere le vette di Aronofsky, è stato davvero abile nella messa in scena degli incontri sportivi, delle sessioni di allenamento e della fatica fisica e mentale del ring, ma è risultato altrettanto convincente con la dimensione privata del racconto.
La fotografia, affidata all’ungherese Màtyàs Erdély, è perfetta nel rimandare alle atmosfere dei tempi e la colonna sonora composta da Richard Reed Parry incastra hit famose del periodo con suggestioni attuali in modo puntuale e incisivo.
Un film che avrebbe avuto tutte le carte in regola per ambire a premi prestigiosi.