Manchester by the Sea (2017): Recensione
Manchester by the sea (2017)
VOTO MALATI DI CINEMA (7,5 / 10)
Manchester by the sea si presenta fin da subito per quello che è: il classico film “essay” rivolto solo “ai pochi intenditori” del cinema. Affrontare uno o più drammi al cinema richiede delle abilità narrative capaci di coinvolgere – non in modo banale – lo spettatore: produrre un’empatia nei confronti dei personaggi tale da arrivare a una sorta di catarsi. Qui non avviene nulla di tutto ciò.
Un film lunghissimo, lentissimo e noiosissimo. Innanzitutto vi è una dilatazione temporale del presente esageratamente eccessiva e non necessaria. Essendo già la trama “lenta” di suo – perché i generi drammatici hanno bisogno giustamente del loro tempo di narrazione – questo viene amplificato dai continui flashback che si svolgono durante le azioni presenti, attraverso un fitto ma non dinamico montaggio alternato. Tra un sbattimento di palpebra e una movimento della mano, ecco che partono i flashback. La semplice azione di alzarsi dalla sedia dura almeno 3 minuti invece che 30 secondi, perché mentre si deve alzare il protagonista deve avere dei flashback. Probabilmente l’intenzione era di giustificare i sentimenti e comportamenti dei personaggi, ma il risultato ha fallito ampiamente.
Molto importante, e grave, è che si presenta come un dramma che non emoziona. Casey Affleck è passivo, recita in modo passivo. Deve interpretare un uomo ferito da una tragedia familiare, a cui reagisce in modo nichilista ed egoista, chiudendosi nel suo dolore. Ma non traspare nulla di più: quello che trasmette sulla pellicola è soltanto un muro che lui pone tra sé e gli altri personaggi, ma anche e sopratutto tra sé e lo spettatore. Se nemmeno loro, che lo stanno vivendo, sono coinvolti dal dramma perché dovrei esserlo io spettatore? Si è scelto di non “urlare” il dolore del protagonista, provando a mostrarlo in modo silenzioso, ma tutto quello che si ricava è una sofferenza contenuta, riservata, privata e cerimoniosa di quelle che si mostrano ai funerali. Ed è così tanto riservato che non raggiunge lo spettatore.
In generale gli strumenti comunicativi non sono stati utilizzati al meglio, in primo luogo la musica. Vi è una continua monotona perforante musica strumentale che si aggira tra i cori di chiesa, quelli natalizi, passando per qualcosa di simile alla lirica o all’opera di teatro. Questa musica dovrebbe sottolineare il momento di smarrimento e dolore del protagonista, ma in realtà la sua costante presenza, per lo più immotivata, la rende un filtro opaco attraverso cui vedere le vicende. La finzione della musica extradiegetica, per praticamente tutta la durata del film, ottiene come risultato che la storia sembri anch’essa una finzione. Sembra che le tragedie non tocchino nessuno, ma che in realtà non sia successo nulla di grave in fin dei conti.
La recitazione è nella media, così come l’originalità delle inquadrature della regia. Tutti gli altri attori hanno pochissime scene significative e non interpretano nulla di così clamoroso da essere candidato agli Oscar. Solo fastidiosa passività e inerzia. Il film non deve sfinire lo spettatore, sopratutto se uscito dalla sala non lascia assolutamente nulla, né emotivamente né riflessivamente. Una trama inconcludente, che voleva rappresentare come alcuni drammi non si possono esaurire all’interno della durata di una pellicola, ma hanno bisogno di un finale aperto che lasci spazio alla speranza. In realtà, si dimostra solo come un temporeggiare infinito di azioni che non danno nessuna svolta alla trama. Non ci sono alti o bassi, solo un’unica linea piatta che segna la definitiva morte dello spettatore all’uscita della sala. Di certo non la miglior sceneggiatura originale…
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