L’uomo invisibile (2020): Recensione

L’uomo invisibile, recensione del film diretto da Leigh Whannell con protagonista Elisabeth Moss. Uscito nelle sale statunitensi il 28 febbraio 2020

VOTO MALATI DI CINEMA 8 out of 10 stars (8 / 10)

L’uomo invisibile
Già il titolo ha evocato immagini e riflessioni su questo tema davvero delicato: Il femminicidio. Con tale termine indichiamo qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente su una donna allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte della donna appunto. Molti studi a carattere psicologico hanno descritto le caratteristiche personologiche del “Intimate partner offender” e della “vittima”. Tendenzialmente, e nella maggior parte dei casi, ci troviamo di fronte a un distubo narcisitico di personalità da parte dell’uomo e da tratti dipendenti della donna che nella loro dinamica di coppia creano un vero e proprio corto circuito che esplode in episodi di violenza.

Il regista Leigh Whannell si serve del genere horror per descrivere questo fenomeno e lo fa adottando il punto di vista dell’uomo invisibile. Quindi del narcisista carnefice e della donna vittima della violenza.
Come definire un uomo che compie una simile azione? Appunto un uomo invisibile ai più, ma visibile alla vittima. È la vittima che conosce meglio di chiunque altro il suo carnefice, ma il carnefice conoscerà altrettanto bene la sua vittima?

Il film racconta le vicende di quest’uomo invisibile da una prospettiva diversa sia al romanzo originale -quello di Wells pubblicato nel 1897-, sia rispetto alle molte trasposizioni cinematografiche. L’idea che funziona del film è che il registra trasforma un geniale scienziato (di sicuro non sano di mente) in un vero e proprio stalker che compie atrocità perverse e riluttanti verso la sua ex compagna. Sin dalle prime immagini, così silenziose (i primi minuti del film sono “muti”), il film incute timore, mette paura, mette angoscia e descrive un viaggio interno ed esterno nell’orrore della protagonista che vede un uomo che è invisibile. Lei vede l’uomo che gli altri non riescono a vedere. Il film è appunto è ciò che lei vede.

Un altro aspetto che mi ha colpito è la contrapposizione tra “la ragazza della porta accanto” Elisabeth Moss, che impersonifica Cecilia, che diverrà la vittima psicologica forse proprio per la sua “normalità”. Ad essa si contrappone Adrian (Oliver Jackson Cohen), multimiliardario, genio assoluto e ossessionato dal controllo sulle vite altrui, il quale dopo che la sua ex fugge in piena notte da casa sua (scena davvero apprezzabile quella della notte in cui Cecilia scappa) si finge morto.

La protagonista però, comprende che questa morte ha qualcosa di strano e intuisce che in realtà lui è invisibile ma non è morto. Per un attimo durante la visione non mi sono reso conto se tutto ciò che viveva Cecilia era nella sua testa o se fosse “concreto”.. poi la trama si sviluppa verso la concretezza. La chiave di lettura è che ciò che lei vede è invisibile agli altri, ma è reale.
Tale virata permette di descrivere in maniera precisa e puntuale le dinamiche vissute da una donna vittima di violenza, vedere appunto ciò che agli altri può essere invisibile. 

Il film si potrebbe intitolare Diario di una violenza domestica… ma si intitola L’uomo invisibile, quindi il messaggio del regista non sarà semplicemente quello di descrivere la violenza domestica, ma qualcos’altro. Allora tutta la prima parte del film mette paura, ansia e angoscia come ogni horror che si rispetti. Ma negli ultimi 30 minuti succede di tutto… non svelo il finale, ma ciò determina un sovvertimento sia del genere horror che della trama stessa. Simbolicamente se ad avere dei superpoteri (ovviamente negativi) sembra essere il ricchissimo, arrogantissimo, bellissimo Adrian che aveva il dono dell’invisibilità e altri poteri di “veggenza”, a conti fatti sarà la protagonista ad essere l’eroina poiché dotata di resistenza, resilienza ed invettiva…
Il finale per certi versi è “a sorpresa” per la modalità. Diciamo che gli ultimi 20 minuti del film sono un’agonia in cui lo spettatore non vede l’ora che finisca, ma il come finisce non appaga del tutto, o meglio non mi ha convinto.
È la virata attraverso la vendetta del finale che mi desta qualche dubbio, comunque comprendo che è un qualcosa di soggettivo e pertanto opinabile.

Psicologicamente si mette in atto nel film una dinamica che potremo definire in questi termini. La vittima cerca un salvatore, nel momento in cui non trova il salvatore diventa a sua volta carnefice del carnefice stesso che diventa vittima. Lo sviluppo psicologico del film può essere riassunto attraverso questo sillogismo. In cui il ruolo vittima e carnefice si sovrappone.
Credo che il finale possa essere riassunto con questa frase: Chi di “invisibilità ferisce” di “invisibiltà perisce”.