Repulsion (1965): Recensione
Repulsion, recensione del film diretto da Roman Polanski con protagonista Catherine Deneuve. Proiettato al Festival di Cannes il 19 maggio 1965
VOTO MALATI DI CINEMA (8 / 10)
La giovane Carol divide con sua sorella un appartamento a Londra. Impiegata come manicure, la protagonista vive in un mondo tutto suo, lontana dalle altre persone che la circondano. In casa reagisce infastidita alle attenzioni della sorella e anche al suo compagno e quando i due partono per una vacanza in Italia, Carol sprofonda in uno stato di allucinazione e paranoia. Licenziata, si ritira nel proprio appartamento, dove immagina di essere violentata.
Repulsion è il secondo lungometraggio e il primo in lingua inglese del regista franco-polacco Roman Polanski. Rappresenta anche il primo tassello della sua trilogia degli appartamenti e paranoia urbana, fra questi anche “Rosemary’s Baby” e “L’inquilino del terzo piano”: tre ritratti femminili ma anche tre viaggi nei meandri claustrofobici di una schizofrenia che si offre soprattutto come confronto dell’Io con l’Altro da sé.
La sceneggiatura di Repulsion venne scritta in 17 giorni dallo stesso Polanski e Gèrard Brach.
Il regista dopo il suo primo film, Il coltello nell’acqua, dovette aspettare a lungo prima che gli venisse offerta l’opportunità di girare un nuovo film. Come protagonista principale scelse la bellissima Catherine Deneuve, la quale, nel film è seguita ossessivamente assieme alle sue paure e silenzi dalla macchina da presa, quest’ultima è spietata con Carol, come lo sarà con i protagonisti dei successivi film della trilogia dell’appartamento, le si incolla addosso, la sottopone ad un calvario di allucinazioni che si trasformeranno in incubi, sia per lei che per lo spettatore.
Ispirato probabilmente al caso di una ragazza che Polanski conobbe in Francia, il film è ricco di elementi autobiografici, un esempio possono essere le campane che risuonano continuamente, che hanno realmente infastidito il regista quando anni fa abitava in un quartiere di Parigi.
Dopo un inizio inquietante, quasi privo di avvenimenti ma più di dialoghi, Polanski ci spaventa facendo apparire l’immagine di un uomo riflesso nello specchio della stanza di Carol. Dopo questo avvenimento la protagonista smette di andare al lavoro e lasciata sola dalla sorella partita in vacanza col compagno, cade sempre più a fondo nell’abisso delle sue paure: se prima l’appartamento per Carol era un rifugio da cui scappare dalle altre persone, fra cui il suo spasimante Colin, successivamente l’appartamento diventerà luogo di incubi, nella sua immaginazione compaiono crepe nelle mura dell’appartamento e da queste sbucano delle mani. L’appartamento, come la psiche di Carol, si sgretola e si trasforma, diventa enorme e piccolo, diventa un labirinto in cui sia lei che lo spettatore, si perde per non tornare più indietro.
Nella prima notte in cui è sola, ode rumori dell’ascensore e dei vicini, qualcuno entra e la violenta, quest’ultimi sembrano esseri demoniaci, ovviamente è solo l’immaginazione di Carol.
La mattina seguente, al salone di bellezza, per la prima volta la protagonista diventa violenta, ferisce al dito una cliente che poco prima l’aveva rimproverata perché sembrava stesse dormendo, infatti da qui in poi la schizofrenia in Carol aumenterà sempre di più sotto forma di stato catatonico. Il rifugio rassicurante costituito dall’appartamento viene violato più volte, la camera da letto è in realtà il luogo dove presenze maschili immaginarie aggrediscono Carol, aggressioni sempre annunciate dal suono delle campane del convento vicino l’appartamento delle sorelle.
Si barrica nell’appartamento dove viene raggiunta da Colin che entra in casa sfondando la porta e morirà per mano della protagonista, perché ora più che mai, ella non riesce a distinguere la realtà dalle allucinazioni, porta il corpo di Colin in una vasca e chiude la porta con assi e chiodi ma questo non impedirà al padrone di casa di entrare infuriato per riscuotere l’affitto, egli tenta di stuprare Carol e qui possiamo renderci conto che forse la protagonista non è così pazza come ci viene mostrato. Stremata, Carol prenderà un rasoio di Michael (il compagno della sorella) e ucciderà il padrone di casa e successivamente nasconderà il suo cadavere dietro il divano.
Ormai le mani che sbucano all’improvviso dai muri, stanno trascinando Carol verso l’universo della follia.
Quando la sorella Helen, con il suo compagno, Michael, fanno ritorno a casa, si trovano davanti ad un caos, ad una scena dell’orrore: Carol è svenuta, i corpi dei due uomini morti non ci vengono mostrati, un po’ come il bambino diabolico di Rosemary nella culla, lo spettatore può immaginare che i delitti siano avvenuti nella mente di Carol così come le crepe nei muri, le violenze, ecc.
L’ultima sequenza mostra una panoramica sugli oggetti sparsi in disordine per la casa fino ad arrivare alla fotografia di Carol bambina vista all’inizio del film (circolarità Polanskiana) e qui vi è uno zoom, l’avvicinamento al suo volto, ai suoi occhi pazzi e teneri, rivolti ad un altrove senza luogo, ad una domanda senza un perché, Repulsion infatti potrebbe essere letto come una storia di un occhio che uccide senza guardare, ma soprattutto al fine di non essere guardato, ovvero penetrato.
Quello che interessa a Roman Polanski è portarci dentro il cervello della protagonista, senza avere punti di riferimento spaziali e temporali. Già dalla prima sera in cui rimane a casa da sola, per lo spettatore è difficile stabilire se ciò che vede accada di giorno o di notte, e se sia vero o immaginazione di Carol. Si entra in un paesaggio, il paesaggio di un cervello.
In Repulsion è difficile stabilire da dove provengano la repressione sessuale e la paura degli uomini di cui soffre la protagonista, perché il regista non lo spiega, si accenna solamente nell’ultima inquadratura del film, allo zoom sulla fotografia, ad un passato probabilmente di abusi anche se non viene esplicitato. Forse è il tentativo di baciarla da parte di Colin che fa scatenare il delirio in Carol che poi sfocerà negli omicidi, o la solitudine, l’incapacità di sapersi gestire senza la presenza della sorella maggiore Helen.
Nel film, gli incubi, mai così reali, ritornano dal passato al ritmo del jazz dell’ottima colonna sonora; ricompaiono per violentare e punire la protagonista.
Riguardo la malattia mentale, Polanski si è espresso molte volte in varie interviste: secondo il regista, la malattia descritta nel film si chiama “schizofrenia omicida” e dichiara di essersi limitato a scrivere, per questo suo secondo lungometraggio, un caso di cui le cause profonde sono difficili da stabilire con precisione.
Repulsion è un’opera distruttiva; secondo Polanski è un film che colpisce allo stomaco, anticipa una serie di elementi che poi sarebbero diventati caratteristiche degli horror moderni, per la precisione psicologici, ad esempio l’accanimento su un singolo personaggio del film, la furia omicida che viene scaturita a causa di inferiorità o debolezza del protagonista e infine gli ambienti interni che diventano lo specchio, in termini metaforici, di una mente disturbata.
Repulsion può essere considerato come un vero horror.