Le fate ignoranti (2001): Recensione
Le fate ignoranti, recensione del film diretto da Ferzan Özpetek. Distribuito nelle sale italiane il 16 marzo 2001
VOTO MALATI DI CINEMA (8,5 / 10)
Le fate ignoranti, film che ha reso celebre il regista turco naturalizzato italiano Özpetek, percorre un macro-tema del mondo cinematografico e non, il mitico “amor che move il sol e l’altre stelle”. L’amore è lo snodo fondamentale della vita di Antonia, interpretata magistralmente da Margherita Buy, che dopo un matrimonio apparentemente felice, si trova faccia a faccia con la morte proprio di suo marito e si vede costretta ad affrontarne le conseguenze, vacillando tra disperazione, rassegnazione e titubanza. Ciò che però il suo lutto non può ammantare è la scoperta di un amore parallelo, che il marito conduceva alle spalle di Antonia e che emerge prorompentemente con la scoperta di un quadro, per l’appunto “le fate ignoranti”, ove dietro si colloca una dedica amorosa e una firma ambigua (“la tua fata”). Disperatamente e testardamente alla ricerca di una megera donna, Antonia finalmente scopre, in un condominio periferico tutt’altro che accogliente, la “fata” che svolazzava placidamente dietro il suo matrimonio con Massimo; con suo grande stupore capisce che si trattava di un uomo, Michele, interpretato in maniera ineccepibile da un giovane Stefano Accorsi, già noto ai molti per la sua magnifica voce in Radiofreccia e il suo ruolo prettamente adolescenziali in L’ultimo bacio. Antonia, dopo alcuni momenti di rabbia e sgomento ed evidenti attriti con il suo “avversario”, pian piano si insinua all’interno di questa famiglia allargata e multicolore che frequentemente si ritrova all’interno dell’appartamento di Michele. In questo vivaio di fervide e spontanee emozioni, Antonia e Michele creano un legame affettivo che non si espliciterà in un atto pratico, ma rimane ugualmente palpabile per l’intera seconda metà del film; basti pensare alla fervida gelosia della donna dopo aver visto il ménage à trois che vede coinvolto Michele e due ragazzi ad una festa. Alla fine, Antonia scopre di essere incinta del suo defunto marito e riacquisita la sua libertà mentale, fin ad allora obnubilata dal lutto, decide di imbarcarsi per una meta ignota agli spettatori. Mentre si imbarca, Michele sul suo balcone fa cadere un bicchiere di vetro a terra, che miracolosamente non si frantuma; riecheggiano infatti le parole della sua amica emigrata turca, interpretata dall’attrice feticcio Sierra Yilmaz: “si dice che quando si rompe un bicchiere la persona che ami se n’è andata via”.
Il rapporto creatosi tra i due, un amore implicito e silenzioso, si manifesta finalmente nel misterioso finale. Un amore che non ha bisogno di parole o gesti per mantenersi vivo (se non un bacio fugace ed imbarazzante che riapre vividamente la cicatrice lasciata dalla scomparsa di Massimo) e che perdura oltre i valichi spazio-temporali. Un amore che tacitamente travolge e si avvinghia al cuore. Un amore che va oltre i classici stilemi e si affianca ai movimenti emergenti del gay-pride. Un amore lontano dal benpensante spirito borghese. Amore che è proprio, come suggerisce Özpetek, una bellissima “fata ignorante”. Cosa è l’amore se non qualcosa di fiabesco, fanciullesco ed irrazionale come una fata? È una fata che rappresenta l’etereo svolazzare dell’amore al di sopra di noi stessi, che ci fa evadere e ci porta con sé. Ma in fin dei conti non è una fata come quelle che siamo abituati a conoscere fin da bambini. È esageratamente ignorante, cafona, megera, meschina e invadente. Ti sbeffeggia, vive le proprie contraddizioni, ignora le proprie strategie e i suoi limiti, e si impossessa di te fin quando non incombe l’inevitabile fato con la morte, con la quale tutto finisce. E si ricomincia. E ci si rialza, come Antonia dopo il lutto, dopo aver conosciuto Michele, la fata ignorante per eccellenza. In fondo, “il migliore dei mari è quello che non abbiamo ancora solcato”.
È proprio lasciando cadere quel bicchiere che ci accorgiamo di quanto le vite dei due siano stati stravolte dall’arrivo di un amore, improbabile ma che li lega oramai indissolubilmente l’uno all’altro. Il lancio del bicchiere da parte di Michele fa emergere una speranza, un’emozione nuova che mai fin ad ora aveva provato ma che ora lo ha segnato. Lo sguardo speranzoso di Michele sul suo balcone e quello di Antonia all’imbarco dell’aeroporto sembrano quasi toccarsi; guardando il cielo sconfinato i due capiscono l’importanza del loro legame ma manifestarlo significherebbe correre un rischio troppo grande per i due che decidono quindi di allontanarsi, sempre tacitamente come il loro amore, con il grande implicito auspicio di rincontrarsi, magari quando Antonia metterà alla luce suo figlio. Un finale così aperto non ci lascia che ipotizzare cosa potrebbe succedere quando il figlio della “sventura” nascerà. Forse in quel caso i due saranno davvero costretti ad ammettere la loro liaison dangereuse? Sembra impensabile che Michele possa stare lontano dal frutto del suo amato e che Antonia non voglia lasciarlo crescere all’interno di quel magnifico nucleo.
Un altro legame che si stabilisce nel film è giustappunto quello tra Antonia e la famigliola felice che vive nel condominio di Michele, composta da una immigrata turca e suo fratello, che avrà poi un flirt con Antonia, una vivace donna napoletana amante della musica del suo territorio, una transessuale ripudiata dalla sua famiglia e vari ed innumerevoli amanti e fidanzati. Nonostante all’inizio Antonia sia accolta con una certa diffidenza, soprattutto da Michele che all’inizio non trova neanche il coraggio di confessare l’amore per il suo marito defunto, riesce ad inserirsi, tanto da interiorizzare questo microcosmo di sana follia come un’immagine indispensabile. Tante volte Antonia uscirà da quella casa in preda alla rabbia o alla sofferenza, ma altrettante volte ne ritorna. Emblematica è infatti la scena del pranzo sul terrazzo di Michele che ricrea un’immagine fresca e conviviale in cui Antonia si sente strettamente a suo agio, più della sua stessa casa che le ricorda il defunto marito e percepisce infestata da una cinica e affettuosa madre.
Per concludere, non possiamo non citare la magnifica regia che Özpetek ogni volta riesce ad offrirci, così poetica ed evasiva che con inquadrature ferme, primi piani e poche mosse ardite riesce a farci entrare pienamente nel film, parte di quella magnifica famiglia. Seppur la sceneggiatura e la fotografia siano a tratti “nebulose”, le interpretazioni della Buy e di un giovane e carismatico Accorsi rimangono impareggiabili, entrambi premiati ai Nastri d’Argento del 2001. Immancabile poi l’orma turca che Özpetek lascia di tanto in tanto, alle volte con una musica, un costume, uno scorcio suggestivo e la presenza della fidata Yilmaz proprio per segnalare la sua vicinanza ai temi dell’omosessualità e per raccontare esperienze autobiografiche della sua vita. Magnifici spunti di riflessione sulla famiglia, l’amore e l’amicizia. Semplice ma emozionante.