Siberia (2020): Recensione
Siberia, recensione del film diretto da Abel Ferrara con protagonista Willem Dafoe. Uscito nelle sale tedesche il 2 luglio 2020
VOTO MALATI DI CINEMA (7,5 / 10)
Il non più giovane Clint (Willem Dafoe) gestisce un piccolo rifugio sperduto tra le montagne dove accoglie i pochi infreddoliti clienti. La sua vita scorre apparentemente tranquilla, ma visioni improvvise, come violenti squarci nel silenzio, rivelano le sue più profonde inquietudini. Un fugace incontro con una giovane amante incinta (Cristina Chiriac) – forse vero, forse solo immaginato – infrange, per un attimo, il proprio isolamento. Ma le piccole vampe d’umano calore, i timidi interstizi di vita che a brevi folate lo investono, lungi dal lenire la propria solitudine, rischiano soltanto di amplificarla. Le sue ossessioni, invece, sembrano prendere sempre più corpo: sono soltanto incubi? Partito per un’esplorazione tra le nevi con la sua slitta trainata dai cani, Clint avrà modo di affrontare il proprio passato e i suoi demoni. Quindi, forse pacificato, forse rassegnato, tornerà al rifugio. Lo ritroverà completamente distrutto. Ma anziché disperarsi, si accenderà un fuoco sul quale cucinerà un pesce regalatogli da un amico. Un enigmatico pesce col dono della parola…
La musica dissonante di un pianoforte sui titoli di testa evoca da subito il clima d’inquietudine che pervade Siberia. Non che questa sia una novità nel cinema di Ferrara, avvezzo a racconti tormentati e angosciosi. Ciò che invece qui risulta originale è la scelta dell’ambientazione: non più la città, nel cinema ferrariano lungo ontologico della sofferenza e della perdizione; non più i grattacieli della New York della sua età giovane o le rovine ammalianti della Roma dell’età matura. Siberia rappresenta la rivoluzione copernicana della filmografia del regista italo-americano in quanto inedita immersione nella natura più selvaggia. Si ha così la sensazione che nel cinema di Ferrara si disegni una sorta di parabola che, unendo indissolubilmente espressione artistica ed età anagrafica, compia una traiettoria di progressiva rarefazione ambientale: se New York, infatti, è esplosione d’energia vitale, luogo di perdizione dove le pulsioni giovanili s’intersecano col senso di peccato ed il bisogno di redenzione, Roma – guardacaso caput mundi di quella cristianità profondamente esplorata dal controverso cineasta – sembra porre al suo servizio un lento digradare non esente dal tormento. Siberia s’inserisce in questa traiettoria d’ambientazione come segmento ulteriore di crepuscolarità angosciata, urgenza di purificazione, esigenza di bilancio. E se la solitudine dei luoghi assomiglia molto a quello che abusatamente si definisce “luogo dell’anima”, il viaggio intrapreso da Clint non è che un metaforico percorso a ritroso verso il suo passato di figlio, marito, padre. Un viaggio nel subconscio alla ricerca di nodi da sciogliere, errori da correggere, sensi di colpa da superare. Un cammino definitivo alla ricerca di un significato alla propria esistenza, o forse, restando nell’ottica del cattolico Abel Ferrara, soltanto di un modo per espiare i propri peccati.
Anche con Siberia, Abel Ferrara non cede di un passo dal suo cinema estremo e disturbante, fiero contrappunto alle produzioni mainstream e assoluto paradigma di libertà espressiva. L’autore di Fratelli realizza un film – da lui stesso sceneggiato assieme a Christ Zois – che abolisce il confine tra realtà e visione. Crea un caos di immagini e suoni distorti (ottime sia le musiche di Joe Delia, che la fotografia di Stefano Falivene) dove le distanze risultano annullate, così come annullati risultano i rapporti, sospesi o, alla peggio, devastati da egoismi e incomprensioni. Potremmo definire Siberia un road-movie mentale, un viaggio-flusso di coscienza dal sapore marcatamente psicanalitico, a suo modo mistico e folle, allucinato e doloroso. Potremmo proseguire con ulteriori aggettivi a dimostrazione della ricchezza di un racconto aperto a molteplici piani di lettura e privo di una vera e propria trama, animato da uno splendido Willem Dafoe, ormai autentico alter ego del filmmaker newyorkese. Clint s’immerge in un inferno personale che lo stesso Ferrara suggerisce essere in qualche modo anche il suo. E’ un girone dantesco dove il regista dissemina tracce autobiografiche (la presenza in scena della moglie, Cristina Chiriac, e della loro figlia, Anna) tra corpi deformi, viscere e sangue. Ma si è anche al cospetto di un Ulisse disturbato, perdutosi sulla strada del ritorno e ormai abbandonato al proprio destino dalla sua Penelope. Clint è Abel, Abel è chiunque: relazioni irrisolte, abbandono alle pulsioni, incomunicabilità. A gradi e schemi differenti, Siberia incarna il profondo sentire di ogni suo spettatore. E come sempre, forse con un pizzico di autocompiacimento, preferisce colpire allo stomaco anziché al cuore.