Shame (2011): Recensione


Shame, recensione del film diretto da Steve McQueen con protagonista Michael Fassbender. Uscito nelle sale britanniche il 13 gennaio 2012

VOTO MALATI DI CINEMA 9 out of 10 stars (9 / 10)

Dopo aver dimostrato di essere un’accoppiata vincente con il film Hunger (2008), Steve Mc Queen e Michael Fassbender tornano insieme per realizzare un’opera prelibata come Shame (2011).
L’attore irlandese, nei panni di un affascinante uomo newyorkese di successo di nome Brandon, incanta lo spettatore servendosi di uno sguardo magnetico e un corpo che pare scolpito nel marmo, elementi cardine della poetica del film.

Fin dalla prima sequenza viene messo in mostra il corpo nudo del protagonista, immagine che ricorrerà più volte sullo schermo: Brandon sfrutta il suo corpo come strumento di piacere, sia solitario, sia in compagnia di donne appena conosciute, a volte prostitute.
È importante per il protagonista che non ci sia alcun legame sentimentale, che la pratica sessuale resti soltanto il soddisfacimento di un bisogno: nel momento in cui il distacco non è possibile, nel momento in cui l’altro cerca di instaurare un dialogo – mi riferisco all’appuntamento con la collega di lavoro (Nicole Beharie) – , il corpo di Brandon fallisce.

Steve McQueen crea un personaggio insaziabile, alla continua ricerca di qualcosa – nel caso specifico, attraverso la sfera sessuale – che possa colmare il vuoto lasciato da un’infanzia difficile, a cui si accenna, ma anche da una società in cui si può avere tutto, ma da cui non si è mai pienamente soddisfatti.
Non è un caso che la pellicola sia ambientata nel cuore di Manhattan, la magica New York in cui tutto è possibile, una facciata splendente che però nasconde anche un lato oscuro fatto dei postriboli e dei locali notturni che il protagonista si ritrova a frequentare dopo una terribile discussione avuta con sua sorella Sissy (Carey Mulligan).

Sissy è proprio l’elemento perturbatore della routine di Brandon: una ragazza bisognosa di affetto e di cure, che piomba senza quasi preavviso (dopo diversi messaggi lasciati nella segreteria del protagonista) nella casa da scapolo di suo fratello.
È proprio in questo momento che il titolo del film, “vergogna”, emerge e si impregna di significato: l’arrivo di Sissy costituisce per Brandon una vera e propria invasione della privacy, un evento che scombussola la ripetitività dei suoi rituali. D’altronde, la sorella del protagonista funge per lui da capro espiatorio, incolpata di far sentire Brandon in una prigione dalla quale fuggire.
In realtà, la presenza di questa donna fragile non fa altro che mettere il protagonista di fronte allo specchio, di fronte ai propri limiti: l’unica prigione in cui l’uomo si ritrova è un’autocostruzione, una prigione costituita dal proprio corpo, a cui Brandon chiede di essere potente e performante durante gli innumerevoli incontri sessuali.
A questo punto, non è possibile evitare di creare un parallelismo tra Brandon e Bobby Sands, protagonista di Hunger: se quest’ultimo trova la libertà lasciando morire il proprio corpo all’interno di una cella di prigione, il protagonista di Shame, pur essendo un uomo libero, si lascia intrappolare dalla prigione del suo corpo, schiavo della pulsione.
Sarà soltanto in seguito ad un momento di massima crisi, in cui Brandon tocca il fondo guidato da un famelico desiderio di sfogare ciò che ormai non è più soltanto tensione sessuale, che il protagonista avrà la possibilità redimersi e – forse – liberarsi.

Steve McQueen, in una sceneggiatura – a cui collabora Abi Morgan – fatta più di immagini silenziose che di dialoghi, lascia allo spettatore la riflessione sulla questione del vuoto esistenziale e sull’inarrestabile bisogno di colmarlo che prova ogni individuo.
Alla fotografia Sean Bobbitt, che si occupa di creare un’atmosfera fredda, glaciale, indice dell’aridità delle emozioni del protagonista. Joe Walker, invece, sfrutta il montaggio per esprimere lo stato della psiche di Brandon: alternato nei momenti caotici, confusi, guidati dalla pulsione distruttiva; lineare nei momenti di quiete della routine.
Le musiche di Harry Scott, sempre stimolatrici di un senso di inquietudine, accompagnano il protagonista durante il film, scandendo i suoi viaggi in metro, il jogging notturno per le strade di New York e i momenti di massimo piacere sessuale.
Una pellicola caldamente consigliata per osservare i tentativi di un personaggio molto complesso di colmare il senso di vuoto che attanaglia – ammettiamolo – ognuno di noi.