I Care a Lot (2020): Recensione

I Care a Lot, recensione del film diretto da J Blakeson con protagonista Rosamund Pike. Disponibile dal 19 febbraio 2021 su Amazon Prime Video

VOTO MALATI DI CINEMA 5 out of 10 stars (5 / 10)

Probabilmente senza un cast di questa caratura, I Care a Lot, terzo lungometraggio di J Blakeson, sarebbe finito in fondo al catalogo Prime Video senza troppi complimenti.

Di fatto non è da tutti poter sfoggiare in un colpo solo un autentico portento come Rosamund Pike (ingiustamente derubata di un Oscar nel 2015 che sarebbe stato strameritato per la sua hitchcockiana performance in Gone Girl) ed un attore di culto come Peter Dinklage. E dire che i due compaiono insieme nella stessa inquadratura soltanto per pochi minuti, essendo il film impostato come un serrato duello mentale combattuto a distanza tra Marla Grayson, truffatrice provetta col vizietto di farsi nominare tutore legale di qualche sfortunato e ricco vecchietto per prosciugarlo dei suoi averi, e Roman Lunyov, boss della mafia russa che si vede privato della possibilità di incontrare sua madre (l’inossidabile Dianne Wiest), caduta nelle grinfie di Marla insieme a una manciata di purissimi diamanti.

Se c’è un pregio che bisogna riconoscere a Blakeson è il saper giocare col ritmo: I Care a Lot inizia come un heist movie per poi trasformarsi in un thriller e mutare nel finale (toppando clamorosamente) in un action, aiutato da un montaggio serrato in grado di catalizzare l’attenzione dello spettatore, senza vertiginosi cali di ritmo, tallone d’achille di questo genere di produzioni. Il film invece scorre, intrattiene e ci regala la solita Rosamund Pike abbagliante per bellezza e bravura in un ruolo, quello della stronza assetata di soldi e potere, che ormai sembra il suo marchio di fabbrica. Ma se in Gone Girl la Pike lavorava in sottrazione qui, complice anche una sceneggiatura di più ampio respiro, si concede anche qualche exploit nella performance che lascia intuire l’immensa versatilità di un’attrice ancora troppo sottovalutata nel panorama cinematografico mondiale.

Purtroppo però la scrittura di Blakeson, nell’ultima parte, si fa troppo esuberante e il ribaltamento di ruoli deciso dal regista inizia a contorcere la struttura del film in un qualcosa di totalmente disomogeneo rispetto a quanto di buono mostrato nella prima parte, sfidando pericolosamente l’intelligenza dello spettatore. Il botta e risposta cerebrale tra Rosamund Pike e Peter Dinklage (talmente bravo che la sua presenza si sente fortissima anche quando in scena nemmeno compare) diventa un’improbabile caccia all’uomo ed inizia a peccare in credibilità. Dopo la riuscita scena del faccia a faccia che si attende spasmodicamente per tutto il film (e sul quale l’intero film si poggia) Blakeson decide di trasformare un’abile truffatrice in un commando in grado di mettere K.O. l’intero KGB e una pericolosa organizzazione mafiosa in un manipolo di morti di sonno che all’improvviso si rivelano incapaci di tenere testa a due ragazze di 60 chili coi vestiti bagnati. Una forzatura evidentemente figlia del moderno diktat hollywoodiano, fastidiosamente dedito al dover pedissequamente mostrare una donna che, praticamente da sola, emerge e domina (mentalmente e fisicamente) in un mondo di uomini spietati, facendosi artefice del proprio destino nonostante sia palese quanto tutta la vicenda si faccia, minuto dopo minuto, più grande di lei non in quanto donna ma in quanto comune essere umano (e fortuna che Blakeson cerca di metterci una pezza con un finale più che azzeccato ma che arriva quando ormai la frittata è fatta).

Ed in effetti l’andazzo del film poteva facilmente essere intuito già nelle prime battute con la massima che Marla si ripete per motivarsi e che ripete allo spettatore anche nelle battute finali “Quando mi chiedono se sono un agnello o un lupo io rispondo: sono una leonessa”. Nell’esatto momento in cui la preda si fa predatore il buon lavoro di Blakeson crolla come un castello di carte e mostra il fianco alle molteplici ingenuità di una sceneggiatura che sembra piacersi troppo nel suo voler essere imprevedibile a tutti i costi.

E messi sul piatto della bilancia, a quel punto, non possono essere ignorati alcuni passaggi sui quali, con un finale diverso, si sarebbe potuto chiudere un occhio, come un manipolo di killer russi che non riescono a portare fuori da un ospizio una vecchietta nonostante siano armati fino ai denti o il background del personaggio di Dianne Wiest, totalmente inutile ai fini della gestione che Blakeson le riserva e con cui si gioca malissimo un twist che sarebbe potuto essere infinitamente più funzionale alla storia, soprattutto concedendo un minutaggio superiore sia alla stessa Wiest che a Peter Dinklage.

Un vero peccato perché le potenzialità per regalarci un piccolo cult c’erano tutte ed il film gode anche di bei momenti e dialoghi spesso brillanti (ottimo lo scambio tra Marla e l’avvocato della signora Peterson ad esempio) ma, come si dice in questi casi “less is more”. Blakeson rimandato a Settembre, il ragazzo ha indubbiamente delle potenzialità ma non si applica signora mia. Avesse avuto per le mani un manipolo di attori meno conosciuti, il giudizio verso I Care a Lot sarebbe stato sicuramente meno severo, ma incartarsi da solo con Rosamund Pike e Peter Dinklage per le mani dovrebbe essere dichiarato illegale.
Provaci ancora Blake.