Trainspotting: 25 anni dopo. Che vita abbiamo scelto?


Avevo circa sette anni la prima volta che vidi un cadavere. A pensarci bene è stata la prima e ultima volta in vita mia che ne ho visto uno.

Era un ragazzo, avrà avuto vent’anni, forse meno. Aveva i capelli ricci, nerissimi ed era magro, tanto magro. Se ne stava in mezzo a questo prato, un ex parcheggio abbandonato davanti al mio palazzo. La cosa che più mi è rimasta impressa, a parte il trambusto e la polizia e la gente tutta intorno al corpo accorsa a guardare, era il colore che aveva quel ragazzo. La pelle aveva assunto una tonalità violacea, tendeva quasi al blu. Non avevo mai visto un essere umano di quel colore. Ci sono notti che ancora lo sogno, quel ragazzo. E’ sempre lì, sdraiato in quel prato con quel colore assurdo, gli occhi chiusi e il mento poggiato sulla spalla. A pochi metri da me, prima che mia madre mi portasse via dicendomi che non era una persona vera ma solo un manichino. Mi disse di non avere paura. E’ tutto come mi ricordo… A parte un particolare.

Era la metà degli anni ’90 e di ragazzi morti in mezzo a un prato non se ne contavano più ormai. Erano tanti, troppi. Tante giovani vite strette da un laccio emostatico e spazzate via da un ago, passato per troppe vene. Dove non arrivava l’eroina c’era il virus. Insieme se la sono spassata quei due stronzi. Si sono portati via figli, padri, madri, amici… Hanno lasciato un segno in tante vite, mentre ne distruggevano altrettante.

Già, la vita. L’ero sceglieva chi aveva deciso di non sceglierla, la vita. Troppo impegnativa e dolorosa, troppo vuota, troppo piena di aspettative e delusioni. Fanculo la vita.

Sono passati esattamente venticinque anni da quando il nichilista monologo di Mark “Rent Boy” Renton, interpretato dall’allora giovanissimo Ewan McGregor, consegnò Trainspotting alla storia del cinema. Venticinque anni. Un quarto di secolo e l’opera di Danny Boyle non ha perso un briciolo della sua forza dirompente e del suo pessimismo cronico. Visto oggi, Trainspotting trasuda anni ’90 da tutti i pori. Quegli abiti, quella colonna sonora, quello slang e tutta quella mortale disperazione sono un’istantanea nuda e cruda di un’epoca dalla quale, chi ne era uscito tutto intero, portava ancora i segni (i buchi) sulla pelle. Venticinque anni in cui il mondo è cambiato. La droga fa ancora parte della vita di tante persone, come pure l’AIDS ma sono mostri che ora fanno meno paura. Come quando cresci e ti rendi conto che non c’era nessun demone sotto al letto pronto a mangiarti appena ti addormentavi. Oggi di AIDS si muore molto meno. C’è chi convive col virus da decenni e riesce addirittura a condurre una vita quasi normale. L’ero c’è ancora anche lei, la vecchia signora. Ha ancora tanti ammiratori ma, come dicevamo, nessuno gli fa più tanta pubblicità. I morti di overdose da eroina fanno molto poco scalpore in un’epoca in cui si scende in piazza per manifestare contro vaccini, green pass e mascherine.

E allora cosa rimane della generazione di Rent, Sick Boy e Spud? Beh oggi come oggi niente di che, chi più chi meno, abbiamo tutti optato per quel maxi televisore del cazzo, solo con lo schermo piatto. Abbiamo un abbonamento telefonico con il quale postare foto di dessert preconfezionati pagati 8€ al ristorante, scattate da un cellulare acquistato a rate che cambieremo il prossimo anno, quando uscirà il nuovo modello. Abbiamo scelto l’abbonamento in palestra ma poi ci ingozziamo di cibo spazzatura davanti a Netflix, lasciando 1€ di mancia a quel coglione indiano che ci ha messo venti minuti per trovare il nostro numero sul citofono, consegnandoci freddi hamburger e patatine.

John Hodge deve essersi messo una mano sulla coscienza quando, dopo aver letto quel pugno nello stomaco rappresentato dal romanzo originale di Irvine Welsh, scrisse la sceneggiatura del film, omettendo probabilmente quei tre-quattro passaggi che, se riportati fedelmente, avrebbero fatto torcere le budella anche ai quei santi dei dirigenti di Channel 4, emittente pubblica che per produrre il film dovette fondare in fretta e furia una divisione cinematografica, la Film4 Production. Ma nonostante Hodge non se la fosse sentita di trasporre a livello cinematografico tutto il degrado, il cinismo e la disperazione con i quali Welsh aveva fotografato le vite di quel manipolo di derelitti, ricevette comunque la nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale.

Il merito di Boyle, scozzese come i protagonisti della storia, sta innanzitutto nel portarsi a casa le riprese in meno di due mesi, visto anche il budget miserabile che gli era stato messo a disposizione, ma soprattutto nel trasmettere lo spirito del romanzo di Irvine Welsh, che è poi il leitmotiv delle vite di tutti i protagonisti: giovani fragili, emarginati e autodistruttivi che conoscono il loro destino e le conseguenze delle loro azioni sul loro corpo e sulle loro vite ma che, della vita, continuano ad essere innamorati. Continuano a sperare in un futuro migliore, lontano dall’ero e magari con accanto una persona con cui mettere su famiglia e cominciare finalmente a condurre un’esistenza il più normale possibile. E Danny Boyle questo lo fa uscire fuori in ogni singolo fotogramma, nonostante i pochi mezzi a disposizione e un manipolo di attori non certo di primo piano, ma che si sarebbero rivelati indubbiamente uno dei tanti motivi che hanno reso un cult il film. Un quasi irriconoscibile Ewan McGregor, Robert Carlyle (lo scatenato Begbie), Jonny Lee Miller (Sick Boy) e Ewen Bremner nella parte del povero Spud (lui che, qualche anno prima, aveva partecipato ad un adattamento teatrale del romanzo di Welsh, interpretando il protagonista: Mark Renton). Volti diventati iconici in un film che è e rimarrà per sempre un’icona intramontabile degli anni ’90, pur fotografandoli con il peggiore obiettivo possibile.

Il film, come dicevamo, perde un po’ della ferocia e della crudezza dell’opera originale ma non possiamo non citare nuovamente il talento di Boyle che infarcisce la pellicola di soluzioni visive innovative e momenti memorabili: dalla corsa iniziale di Mark e Spud per le strade di Edimburgo (unica sequenza del film realmente girata nella capitale scozzese, dove si svolgono le vicende, dato che il resto delle riprese erano state effettuate a Glasgow in un magazzino abbandonato), al celebre monologo di Rent Boy di cui parlavamo prima, alla rissa nel pub scatenata da Franco (una di quelle più fedeli al proprio corrispettivo letterario) passando per l’iconica sequenza finale sulle note di Born Slippy, quando vediamo Mark lasciare Londra per andare incontro alla vita migliore che da tempo stava inseguendo. Ci sono poi le scene diventate veri e proprio cult, come l’esperienza di Mark nel peggior cesso di tutta la scozia, “decorato” con la cioccolata per rendere la scena ancora più disgustosa.

E’ un film potente Trainspotting ed è un peccato che le nuove generazioni non riusciranno, con tutta probabilità, ad apprezzarne il valore cinematografico e perché no, anche socio-culturale. Perché il film di Danny Boyle, se vogliamo trovargli un difetto, è quello di essere cristallizzato in un momento estremamente preciso della nostra storia recente. E’ come se, sequel a parte (T2 – Trainspotting, 2017), Mark, Spud, Sick Boy e Begbie non fossero mai riusciti veramente a uscire da quella stanza d’albergo, ridotta ormai a un cumulo di macerie. Il mondo gli si era già accartocciato addosso, li aveva masticati e poi sputati.

Chi quell’epoca non l’ha vissuta non potrà mai capire quanto Trainspotting rappresenti forse la testimonianza più veritiera di cosa rappresentò l’eroina in quegli anni. Chi non li ha vissuti sulla pelle, quei drammi, non riuscirà a comprendere il senso di liberazione nel vedere Renton andarsene con quella borsa in spalla, lontano dalla vita ma anche dalla morte. E’ un film difficile da rivedere, se hai avuto anche solo una vaga idea di quanto quei ragazzi fossero spacciati ancora prima di capire che avevano una via d’uscita, tutti quanti loro.

In quegli anni vidi una persona a me molto cara prendere la propria vita e distruggerla una siringa alla volta. Il proprio talento, la famiglia, gli amici e l’amore della sua vita sgretolati in una spirale di disperazione che non ha mai trovato fine. Se n’è andato un paio d’anni fa. Nessuno lo ha pianto, nemmeno mio padre, che lo aveva visto nascere e aveva visto anche lui con quanto impegno avesse deciso di distruggersi. Anche lui aveva provato a dargli una via d’uscita, ma non c’era riuscito, come tutti gli altri. Era suo fratello.

Quando ogni tanto mi capita di risognare quel ragazzo morto di overdose nel prato davanti casa mia, è tutto come quel giorno, tutto spaventosamente uguale a quel pomeriggio d’estate di tanti anni fa. Solo che quando lo sogno, ha la faccia di mio zio. Uno dei tanti che non ha trovato la forza di scappare.
Questo articolo è dedicato a lui, ovunque sia.