Madre (2019): Recensione


Madre, recensione del film diretto da Rodrigo Sorogoyen con protagonista Marta Nieto. Uscito nelle sale spagnole il 15 novembre 2019

VOTO MALATI DI CINEMA 8.5 out of 10 stars (8,5 / 10)

“Come stai? Volevo solo sapere se stai bene…”
Una semplice domanda rinchiusa in una frase. Quasi un mantra, per Eléna, la protagonista della pellicola diretta e sceneggiata dal regista spagnolo Rodrigo Sorogoyen e proiettata il 30 agosto 2019 nella sezione Orizzonti alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, adattamento su grande schermo dell’omonimo cortometraggio del 2017.

I primi minuti della pellicola non si scordano. Assistiamo alla drammatica telefonata nella quale Eléna apprende che suo figlio Iván, di sei anni, in viaggio con l’ex marito Ramón per una breve vacanza, è rimasto solo su una spiaggia deserta nel sud ovest della Francia. Sono minuti concitati, spasmodici. In lacrime, con la linea telefonica che traballa come la sua voce, Iván racconta che suo padre si è allontanato, e che ora un signore poco raccomandabile gli si sta avvicinando. Le parole strozzate dall’angoscia, Eléna cerca di tranquillizzarlo. Lo sollecita a scappare, a nascondersi, fino a quando la comunicazione si interrompe bruscamente, non lasciando presagire nulla di buono.
Trascorrono dieci anni.

Ritroviamo Eléna (una straordinaria Marta Nieto, moglie di Sorogoyen nella vita), direttrice di un bar sulla spiaggia di Vieux-Boucau-les-Bains, sempre nel sud ovest della Francia, un luogo che diventa la camera di combustione della vicenda.
Lo sguardo spento, l’apatia a gravarle sulle spalle come un macigno, sintonizzata sui toni bassi del requiem e ormai assuefatta al veleno a rilascio lento che un destino infausto le ha somministrato, Eléna più che vivere si lascia vivere, dolente spettatrice di un’esistenza, la sua, che non è ancora riuscita a prendere le distanze dal trauma provocato dalla scomparsa di Iván, un trauma che ha denti affilati e ingoia affetti, abitudini, sicurezze. E lo fa anche con la stessa Eléna, quasi ingoiata all’interno di se stessa.
Poi, in uno di quegli incontri al crocevia di due destini, ecco apparire Jean (ottima l’interpretazione del giovane Jules Porier, già protagonista in “Marvin”, di Anne Fontaine). Jean, un ragazzo che ha l’età del figlio perduto Iván. Che assomiglia a Iván. Che potrebbe essere Iván ma non lo è, e tuttavia occhieggia come un raggio di sole nel grigiore che avvolge Eléna, convogliando nelle sue viscere emozioni sopite da tempo.

Inizia un’amicizia. Un’amicizia che scorre sul confine dell’ambiguità, osteggiata dai genitori del ragazzo e mal sopportata da Joseba, l’attuale compagno di Eléna. Ma un filo silenzioso pare stringere i lacci dei loro destini…
“Come stai? Volevo solo sapere se stai bene…
“Sto bene, non preoccuparti… Hasta mañana!”.
Sì, starà bene, Jean. E starà bene anche Eléna, madre cinematografica indimenticabile, finalmente riconciliata con se stessa e con il passato, perché come diceva Ernesto Di Martino, “Il passato torna sempre a mordere se non lo elabori”.

Alla sua quinta prova di regia dopo pellicole come “Che Dio ci perdoni” (2016) e “Il regno” (2018), Sorogoyen dirige un film che è un’immersione nelle tenebre del lutto della perdita filtrato dallo sguardo di Eléna, rinchiusa nel personale inferno di una morte che non muore, ma capace, grazie al candore di Jean, di trovare la forza di evadere dalla prigione di ghiaccio che la teneva prigioniera per restituirsi all’amoroso ascolto di sé e degli altri, sostituendo la polifonia al monologo di un martirologio interiore.
Già, perché è anche se non soprattutto un film d’amore, quello del quarantenne regista di Madrid. L’amore di una madre capace di oltrepassare la colpa per aprirsi al perdono, di superare l’angoscia della perdita di un figlio ed essergli, in definitiva, madre nel tempo,
“Madre”. Una pellicola preziosa, da consigliare vivamente.
Una pellicola che lascia un residuo emotivo destinato a rimanere a lungo nella memoria dello spettatore.