È stata la mano di Dio (2021): Recensione

È stata la mano di Dio, recensione del film scritto e diretto da Paolo Sorrentino con protagonista Filippo Scotti. Uscito nelle sale il 24 novembre 2021 e disponibile in streaming su Netflix dal 15 dicembre dello stesso anno

VOTO MALATI DI CINEMA 7.5 out of 10 stars (7,5 / 10)

Se volessi definire brevemente Paolo Sorrentino, impresa assai ardua, opterei per “l’uomo delle suggestioni”. Il suo cinema, da sempre, vive dell’immaginario personale del regista e ne assorbe l’anima più profonda, quella di un autore che sembra avere come unico intento quello di trascinare lo spettatore in una visione, in un sogno ad occhi aperti. Quello di cui stiamo per parlare, nello specifico, è il sogno del Sorrentino uomo. Il suo sogno ad occhi aperti, da cui non si è mai svegliato.

Napoli, anni 80’. Fabio Schisa, per tutti Fabietto, è un adolescente un po’ introverso, taciturno e con le cuffie del walkman sempre a portata di mano. Vive insieme a suo fratello Marco, aspirante attore e a sua sorella Daniela. Ma l’anima della famiglia sono i suoi genitori, Saverio e Maria. Lui un simpatico e sorridente direttore di banca, lei un’eccentrica casalinga dedita allo scherzo, con cui fa impazzire vicini e parenti. Ma la famiglia Schisa conta numerosi altri individui, una carovana di parenti sui generis che sembrano formare una sorta di circo itinerante, in cui non ci si annoia mai. La vita piuttosto tranquilla degli Schisa e in particolare quella di Fabietto, sta per essere sconvolta da un evento incredibile: l’arrivo a Napoli di un secondo Dio.

La storia di Fabietto è quella del giovane Paolo, rimasto orfano di entrambi i genitori dopo un tragico incidente nella loro casa di montagna, acquistata con tanti sacrifici. Quella sera anche Paolo avrebbe dovuto essere in quella casa con loro, se solo il richiamo di Dio non lo avesse trattenuto a Napoli. Quella sera Diego Armando Maradona divenne il salvatore di Paolo Sorrentino e smise di essere un “semplice” mito calcistico. È stata la mano di Dio è, per forza di cose, il film più personale ed intimo del regista napoletano. È il suo fare i conti con una cicatrice mai completamente rimarginata e che non ha smesso di sanguinare, seppur il dolore possa essersi attenuato in qualche modo. È stata la mano di Dio è Sorrentino che fa pace con i suoi fantasmi e cerca di raccontare la storia di un ragazzo che vedeva in un calciatore argentino la salvezza. La salvezza sua e dei problemi della sua famiglia, celati dietro scherzi, sorrisi e partite di calcio guardate alla TV. Nascosti nella stanze vuote di una casa al mare e nelle nottate tranquille d’estate quando la vita sembra leggera e bella. Sorrentino accarezza l’animo dei personaggi con indulgenza e delicatezza, dimenticandosi del cinismo de La grande Bellezza e dei suoi deprecabili protagonisti. Il film gira intorno ad un evento ben preciso e non è quello della morte dei suoi genitori. In questo modo Sorrentino esorcizza la tragedia e la filtra sotto la lente dell’entusiasmo e della speranza. La speranza di un popolo di tornare a gioire grazie ad un ragazzo argentino arrivato a Napoli come un Dio e diventato qualcosa di forse più grande, di più concreto sicuramente. Diego diventa l’ancora di salvezza di Fabietto, la ragione per andare avanti e per continuare a sorridere, di continuare ad essere grato. Perché forse è vero che quel giorno è stato Diego a trattenerlo a Napoli, per farlo andare allo stadio e salvargli la vita.

E allora di cosa parla il film? Di un miracolo? Di un Santo? Di Dio? Forse parla di tutte queste cose ma principalmente parla dei legami familiari e di quanto siano delicati e dediti allo sfilacciamento. Di quanto sia difficile ricucirli e continuare a vivere, come se niente fosse. E vivere come se niente fosse è impossibile. È impossibile se sei una donna che preferisce prostituirsi per sperare di rimanere incinta o un padre di famiglia che ha avuto un figlio con un’altra donna. Oppure un contrabbandiere che deve farsi dieci anni di carcere perché ha provato ad essere libero o un ragazzino che ha perso tutto e che pensa di non poter trovare il suo posto nel mondo al di fuori di uno stadio di calcio.

È un film complesso quello di Sorrentino, nonostante lo stesso autore abbia asciugato più che poteva la sua regia, eliminando il superfluo, il leziosismo, lo sfarzo, l’eccezionale. Ha voluto lasciare il canonico, come se anche i movimenti della macchina da presa fossero parte di una routine familiare dedita alla normalità. E questa, del film, ne è l’indubbia grandezza. Come quella di voler mostrare Maradona per pochi istanti, come un’apparizione, una visione in bilico tra sogno e realtà. O come il voler ricorrere ad una delle suggestioni più antiche della tradizione napoletana, quella del munaciello, per raccontare il dramma psicologico di una donna devastata dal non riuscire ad avere figli. O ancora nel conferire al suo attore feticcio per eccellenza, Toni Servillo, un ruolo da semplice “comprimario” (portato in scena con la solita, disarmante maestria) per dare più spazio alla sincera bravura del giovane Filippo Scotti, vera sorpresa del film. La narrazione prosegue per frammenti, come fosse il tentativo di Sorrentino di ricordare lucidamente, senza riuscirci, le sensazioni di quei giorni. Ma riuscirci era impossibile. C’erano così tante emozioni in ballo da togliere il respiro. C’era così tanta vita in quei giorni da dimenticarsene il senso.

C’è tanto di quel cinema in È stata la mano di Dio da togliere il sonno e c’è tanto Sorrentino da uscire fuori dai bordi senza però cadere nella trappola del narcisismo (l’aver voluto usare dei nomi fittizi ne è la prova).

Ad un anno dalla morte di Maradona, il Diego dei miracoli, il Diego del gol di mano all’Inghilterra, il Diego della speranza della gente, napoletana e non solo, questo film rende ancor di più l’idea di quanto ha significato Maradona per tante persone e di cosa ha dato, soprattutto, alla gente. Ha dato speranza semplicemente accarezzando un pallone. Quella di Sorrentino, invece, è una carezza al cielo.

Una lettera d’amore alla sua famiglia e a Diego, che ne è entrato a far parte per sempre.