House of Gucci (2021): Recensione

House of Gucci, recensione del film diretto da Ridley Scott tratto dagli eventi che hanno portato all’omicidio di Maurizio Gucci. Uscito nelle sale statunitensi il 24 novembre 2021

VOTO MALATI DI CINEMA 7 out of 10 stars (7 / 10)

Per House of Gucci vale un po’ lo stesso discorso fatto qualche settimana fa per Cry Macho.

Come quello di Eastwood, il film di Ridley Scott era stato pensato diversi anni fa (non mezzo secolo fa, ma 15 anni buoni sì). Ridley Scott abbraccia il progetto, poi lascia la regia per il sovrapporsi di altri impegni (American Gangster e A good Year su tutti). Al timone del progetto si alternano diversi registi e sceneggiatori (compresa Jordan, la figlia di Scott) fino al 2019, quando Ridley decide di tornare a dirigere il film, col pieno supporto della Gucci s.p.a., che mette a disposizione della produzioni archivi, documenti ed oggetti di scena e della MGM, che nel frattempo ha acquisito i diritti del progetto. Ciak, si gira.

La storia dell’omicidio di Maurizio Gucci, patron dell’omonima casa di moda, orgoglio italiano nel mondo, avvenuto il 27 Marzo del 1995 è probabilmente una delle pagine più oscure della cronaca nera italiana. Mandante dell’omicidio, infatti, fu sua moglie Patrizia Reggiani, che nel 1997 venne condannata per il delitto insieme ai sicari che avevano ricevuto l’incarico.

Raccontare storie del genere non è mai facile, soprattutto perché per un regista il rischio di schierarsi, anche involontariamente, è sempre dietro l’angolo e da lì a trasformare una visione registica in un giudizio sui fatti, il passo è breve, così come è facile poi distorcere il giudizio complessivo del film da parte dello spettatore. I grandi registi però sanno quando fare un passo indietro per attenersi alla narrazione dei fatti, nudi e crudi, senza indugiare oltre il dovuto nell’animo dei protagonisti e nella loro personalità. E Ridley Scott non è solo un grande regista, è tra i più grandi registi del mondo. Ecco perché House of Gucci è un grande film. Un film che trasuda anni ’80 da ogni fotogramma, da ogni nota della splendida colonna sonora e nei cambi di ritmo necessari a scandire le vicende senza però farle risultare una didascalica cronaca di un delitto del quale lo spettatore è già a conoscenza.

Immaginate House of Gucci come una lunga passerella in cui ogni interprete dà sfoggio del proprio talento. Immaginatela come una sfilata di Gucci. Pomposa, eccessiva, patinata, spettacolare, raffinata e a tratti persino kitsch. In una parola: eccellenza. Perché della regia di Scott sembra anche superfluo parlare, tanto impeccabile e risoluta. Del cast però, di quello bisogna parlare assolutamente. La bravura di Adam Driver non la scopriamo certo ora. Il suo Maurizio Gucci è un misto di goffaggine, arroganza, ingenuità e insicurezza e per questo appare come una figura umana e fallibile, consapevole di essere stato fagocitato da un mondo che, palesemente, non era il suo, come non era sua la colpa di essersi innamorato di una donna che, mettendogli l’anello al dito, stava già firmando la sua condanna a morte. E qui bisogna aprire una parentesi su Lady Gaga. Perché del cast è indubbiamente quella con meno talento, questo bisogna dirlo. Il suo overacting, il suo andare costantemente sopra le righe però non è mai fastidioso e anzi denota abnegazione, impegno e passione. Per questo anche la sua Patrizia Reggiani è credibile. Credibile nella sua lucida follia e nella raggelante freddezza con la quale ha portato avanti il suo “progetto” (scatenando le ire della vera Patrizia Reggiani, per nulla contenta della sua trasposizione cinematografica. Ma dai?). Peccato che non si possa fare lo stesso ragionamento sul Paolo Gucci portato in scena da Jared Leto, uno che di talento ne ha da vendere ma che qui si permette fin troppe derive teatrali, complice anche un doppiaggio fin troppo isterico ed un make up incredibile che gli ha forse annientato i freni inibitori.

Ora però svestiamo i panni dei critici di cinema e mettiamo su quelli da paleontologi. Perché ora si parla di dinosauri. E ci perdoneranno Jeremy Irons e Al Pacino se li definiamo così, in maniera ironica ovviamente, perché l’unico modo per raccontare la loro performance sarebbe quella di togliersi il cappello (per chi ne porta uno) e fare un bell’inchino. Un inchino a chi questa passerella la calca più o meno da cinquant’anni e a cui sembra stare bene qualsiasi abito. Ed è magnifica la contrapposizione tra il Rodolfo Gucci di Jeremy Irons, elegantissimo nella sua aristocratica portanza british e l’Aldo Gucci di Al Pacino che, ad 81 anni suonati, recita con l’esuberante verve di un ragazzino, in forma ed ispirato come non si vedeva da anni. Qui però non si può più parlare di talento. Questo è un fuoco sacro che non accenna a spegnersi.

E quindi avanti così fino ai titoli di coda, per quasi tre ore. Tre ore pregne di Cinema in cui fa capolino giusto un pizzico di ridondanza in alcune sequenze ed un generale annientamento del concetto di “less is more”, che per una volta ce lo facciamo andare bene, dai. Anzi, diciamo che non poteva essere altrimenti. Come accennavamo in apertura di questa recensione, in House of Gucci si respira il grande cinema degli anni ’80. Quello dei Casinò di Scorsese e degli Scarface di De Palma. Il cinema che portava la gente in sala. Con House of Gucci Ridley Scott torna a dirigere un grandissimo film con un cast meraviglioso. Due motivi più che validi per riempirle le sale, dopo la cocente delusione al botteghino di The Last Duel.

Che Rid, diciamocelo, come fai a portare al cinema un film sui duelli a cavallo nel medioevo e sperare che la gente si fiondi a vederlo? Eddai…