Le sorelle Macaluso (2020): Recensione
Le sorelle Macaluso, recensione del film drammatico scritto e diretto da Emma Dante, tratto dalla sua pièce teatrale. Uscito nelle sale italiane il 10 settembre 2020
VOTO MALATI DI CINEMA (8 / 10)
C’erano quattro sorelle, qualche decennio fa, nella periferia palermitana.
Sono le sorelle Macaluso, Maria, Pinuccia, Lia, Katia e Antonella, accompagnate sulla pellicola cinematografica dalla regista e drammaturga Emma Dante.
Dapprima pièce teatrale, presentato alla 77 edizione della Mostra del cinema di Venezia, l’autrice ha deciso di provare a raccontare la toccante storia attraverso una macchina da presa.
La loro quotidianità è giovanile, genuina, semplice, ed ognuna, a suo modo, riesce a strapparci un sorriso: chi legge, chi balla, chi si trucca di continuo e chi guarda: la piccola Antonella.
Insomma una storia tutta al femminile, dove la ‘donna’ emerge in tutte le sue sfaccettature, in forma di madre, di moglie, sorella e amante.
Sin dalle prime scene notiamo come sia di grande importanza “lo sguardo”: lo sguardo di tutte quante nel momento in cui decidono di forare una parete della casa per vedere il mare dall’interno. Come se la linea dell’orizzonte generata dal contrasto cielo/acqua fosse un piacere quotidiano (come biasimarle, infondo, guardare al di là di un foro era un’abitudine anche per Noodles in C’era una volta in America). Una vista unica. Uno sguardo che è rivolto inoltre, all’ultimo piano, colmo di colombi i quali vengono venduti e costituendo così una fonte di sostentamento.
Poi, proprio al mare, un giorno qualsiasi di un’ estate spensierata, sembra faccia molto caldo, in costume, con la pelle nuda, l’acqua, i giochi, le risate, avviene il tragico evento.
La morte, annunciata da una sequenza che mostra tanti uccelli bianchi in volo quasi impercettibili
per il contrasto con il cielo grigio, arriva per la piccola Antonella.
Ed è questo lo spartiacque che rompe la quiete e il progredire della trama, e le protagoniste che si
frantumano nel mentre crescono e cambiano.
Con lei se ne va anche la spensieratezza, l’infanzia sembra lasciare di colpo le loro vite.
“Fulmini e tempeste, io cavalcherò” grida Gianna Nannini mentre lo schermo sembra volerci far capire che tale assenza si è però fatta presenza, sembra dare il via ad una corsa sfrenata a chi riesce meglio aggrapparsi al ricordo, rimanendo ancorate al passato, alla sorella perduta e alla casa che non riescono a vendere.
La pellicola sembra avere due personalità completamente contrastanti: inizialmente la solarità di quella gioventù di un tempo, che “basta poco per divertirsi”, ma che, con improvvisa fatalità, sembra sfuggire in un attimo; in un secondo momento la cupezza, la rabbia e il risentimento.
La luce artificiale, elettrica comincia a farsi spazio, insinuandosi in innumerevoli scene al chiuso, come se avesse perso la forza propria del sole che aveva di ‘illuminare’ tutta la prima parte del film.
Ripetute inquadrature fanno il giro dell’abitazione ogni qualvolta le ragazze la lasciano, inondata finalmente dal silenzio. L’unica presenza che resta è quella dei colombi e della voce di Battiato che canta “Inverno” di De André.
Infatti la vera spettatrice è quest’ultima che, insieme a noi, sembra stare seduta di fronte al grande schermo. L’involucro si fa persona, osserva le loro vicissitudini come un ente super partes, mero contenitore incapace di sottrarsi dall’assorbimento inconsapevole del passare del tempo, mutando e invecchiando insieme a loro.