Drive My Car (2021): Recensione

Drive My Car, recensione del film diretto da Ryūsuke Hamaguchi. Uscito nelle sale cinematografiche giapponesi il 20 agosto 2021

VOTO MALATI DI CINEMA 9 out of 10 stars (9 / 10)

Siamo talmente tanto abituati a fruire di opere di matrice statunitense che, spesso, pellicole provenienti da altre culture ci fanno storcere il naso in partenza, un po’ per il differente registro narrativo ed un po’ perché prevenuti da un tipo di linguaggio così lontano da quello che mastichiamo quotidianamente. Ed è sempre una manifestazione prettamente di stampo americano – la grande macchina commerciale che viene definita ‘cerimonia degli Oscar’ – che, ogni tanto, permette di portare alla luce, o comunque di far giungere al grande pubblico, prodotti che altrimenti sarebbero rimasti nascosti agli occhi dei più. È successo con Parasite di Bong Joon-ho, e sta succedendo ora con il meraviglioso Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi.

Il film è la trasposizione dell’omonimo racconto di Haruki Murakami – contenuto nella raccolta Uomini senza donne – ad opera del cineasta giapponese, presentato in concorso alla 74ª edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto il prix du scenario.

La storia narra le vicende di un attore e regista teatrale, Yūsuke Kafuku, interpretato da uno straordinario Hidetoshi Nishijima, che due anni dopo la morte dell’amata moglie Oto, accetta di dirigere un adattamento multilingue dell’opera di Anton Pavlovič Čechov: Zio Vania. A causa della diagnosi di glaucoma, i produttori dello spettacolo teatrale decidono di affiancare a Kafuku una autista – Misaki Watari, intrepretata da una bravissima Tôko Miura – che lo accompagni in ogni suo spostamento, la decisione non risulta per nulla semplice da accettare per il nostro protagonista che considera i lunghi viaggi in macchina, a bordo della sua Saab 900 Turbo rossa del 1987, come una occasione per ripercorrre i passi dell’opera teatrale mediante una cassetta con le battute registrate dalla moglie e, attraverso la stessa, avere un contatto intimo e diretto con la defunta. Piano piano l’iniziale diffidenza dell’artista teatrale si trasformerà in un bellissimo rapporto di condivisione con la giovane autista

Drive My Car è un delicatissimo racconto di introspezione dell’animo umano, in quest’opera viene affrontato il tema della solitudine attraverso diversi layer di lettura e filtrato dalle vicende di diversi personaggi che risultano così vicini seppur distanziati da età e caratura sociale. Per uno spettatore meno avvezzo alle opere più introspettive sicuramente i 179 minuti di durata potranno rappresentare uno scoglio quasi insormontabile, ma se si sposta l’attenzione da un andamento che tende decisamente a prendersi il suo tempo si assiste ad una bellissima favola per immagini capace di far riflettere ed emozionare.

Il rapporto che si instaura tra Kafuku e la sua giovane autista Watari è quanto di più onesto e genuino, la solitudine che gli accomuna, seppur condita da contesti diversi, permette di creare un rapporto intimo che non risulta mai forzato nelle sue dinamiche ed allo stesso tempo molto tenero e genuino. È la rappresentazione più fedele dell’arte del racconto in cui la narrazione è perfettamente scandita da ottimi dialoghi e profondi silenzi, che vengono accompagnati da lunghissime sequenze a camera fissa in cui la parola è assoluta protagonista, a questi si alternano le simmetrie architettoniche giapponesi e i suoi paesaggi mozzafiato che attraverso campi lunghissimi, nelle scene in esterno, esteriorizzano il vuoto che stanno provando i personaggi – perfetta esemplificazione è la scena della fuga da Hiroshima -.

Il film di Hamaguchi è dichiaratamente verboso, come anticipato in precedenza la parola ha un ruolo effettivo nella narrazione è quasi tangibile nel suo scandire le sequenze quasi come fosse un personaggio, nonostante questo la sua valenza viene messa più volte in discussione dall’autore: quanto delle parole che pronunciamo viene recepito da chi abbiamo di fronte, da chi amiamo?

Un paradosso che colloca i personaggi in un setting alienante in cui i tanti dialoghi – resi ancora più inclusivi dal pretesto dell’opera teatrale che fa si che i diversi attori si esprimano in diverse lingue – cercano di riempire un vuoto insostenibile, e in cui il rapporto più genuino e dolce è quello di una ragazza che della parola ne è stata sempre priva.

Il regista nipponico attua una scelta stilistca importante, i folti dialoghi diventano sempre meno presenti tanto più che Kafuku crea un legame con Watari. Andando avanti con la narrazione l’attore nipponico smetterà di sentire la voce della moglie tramite la cassetta e, finalmente, riuscirà a dare voce ai suoi sentimenti in una bellissima scena di confronto con Watari. Da qui la parola, tanto vuota, viene rimpiazzato da un silenzio che paradossalmente dà voce ai sentimenti, chiudendo questa bellissima favola con un primo piano completamente muto.

Drive My Car è un film che si concentra sui personaggi, sull’interazione tra gli stessi e sul potere della parola e di come questa sia, appunto, depotenziata dalla difficoltà di riuscire a interagire con chi ci si pone di fronte. Uno dei migliori film del 2021.