Better Call Saul: analisi dell’ultimo, magnifico episodio

“Sappiate che il vostro peccato vi raggiungerà”
Sacra Bibbia (nm 32, 23)

Forse è vero che le persone non cambiano. Ma è vero anche che si evolvono in base alle loro esperienze, al loro passato. Fanno i conti con le loro azioni e con le scelte che hanno fatto lungo il loro cammino. Talvolta le loro scelte influenzano e segnano le vite di chi gli sta intorno e forse è quella la parte più dura da mandare giù: il realizzare di essere stati artefici non solo del proprio destino, ma anche di quello degli altri.

Sette lunghi anni. Questo è il tempo per il quale Better Call Saul ci ha accompagnato, riempiendoci gli occhi di meraviglia e conquistandosi, un episodio alla volta, un posto nell’Olimpo della serialità televisiva. Un qualcosa che all’inizio, con quell’eredità pesante come un macigno che si portava dietro, sarebbe stato impensabile.
Ma Vince Gilligan e Peter Gould devono essersi seduti al tavolo, una sera, e davanti allo script del primo episodio e a un paio di bicchieri di scotch devono aver esclamato “SI-PUO’-FARE!”. Ed è stato dannatamente così.

Ma non staremo qui a ripercorrere tutto ciò che di buono (tutto) è stato fatto nelle sei stagioni di questa serie.
Su quanto ogni episodio sia stato cruciale nello sviluppo di un personaggio che entrerà nella leggenda insieme ai vari Tony Soprano, Vic Mackey, Don Draper e Walter White… Oggi parleremo esclusivamente del magico episodio conclusivo della serie: Chiamavano Saul. E dire che la traduzione italiana perde gran parte del fascino che invece, come da tradizione, riesce a trasmettere quello originale, anche solo leggendolo e ripensando a tutta la storia.

“Saul Gone”. E non è solo Saul ad andarsene per sempre, ad uscire di scena, come ci suggerisce il titolo dell’episodio 13. Ad andarsene per sempre è l’essenza del suo Io-fantoccio. Il gioco di parole tra il nome e “anima” (Soul, in inglese, ha la stessa identica pronuncia di Saul) è di quelli che fanno venire i brividi. Perché lo vediamo coi nostri occhi Saul Goodman tornare prepotentemente sulla scena, anche se per pochi istanti (quanto ci era mancato? E quanto era mancato a Gene Takovic, ennesimo alter ego di Jimmy McGill?) soltanto per poi riandarsene. Un saluto commovente e sofferente, ma anche liberatorio, dopo la spirale di bugie e dolore che era diventata la sua vita. Saul se ne va via per sempre, la sua anima non esiste più. C’è di nuovo quella di Jimmy ora, che fa finalmente ammenda per i suoi peccati. Fa i conti con tutte le vite che ha contribuito a spezzare solo per arraffare qualche altro milione di dollari che, alla fine della fiera, non gli è servito a niente. Saul Goodman ha meritato la sua fine. Gli autori, nella seconda metà di quest’ultima stagione, hanno voluto sbatterci sotto gli occhi che tipo di persona è veramente quella per cui, in qualche modo, avevamo fatto il tifo per sette anni, sperando che riuscisse finalmente a farla franca una volta per tutte.

Una persona ignobile e meschina, che non si è fermata nemmeno davanti ad un uomo che muore di cancro pur di riprendersi un pezzo della sua vecchia vita. Un criminale che arriva a tanto così dal fare fuori una vecchietta sulla sedia a rotelle pur di impedirle di smascherarlo per l’ennesima volta, nel suo ennesimo travestimento, forse quello meno credibile. Saul Goodman o Gene Takovic o Jimmy McGill sono la stessa, orribile persona. Una persona che merita di passare il resto della sua vita dietro le sbarre. Eppure anche ad un condannato si concede un ultimo desiderio… Almeno quello, Jimmy, se lo è meritato.

Un’ultima sigaretta con Kim, forse la vittima più colpita dal suo scellerato stile di vita. Una sigaretta a fumare lentamente, uno dalle mani dell’altra, in penombra, col sole che filtra dalle sbarre. Tutto quel dolore, tutto quel sangue e tutti quei soldi solo per ritrovarsi lì, in una piccola stanza di un penitenziario a guardarsi negli occhi e a fumare quella sigaretta. E’ andato tutto in fumo, alla fine. Tutto in fumo….

E’ stato un viaggio incredibile. Un viaggio in cui finiamo stritolati da un bianco e nero meraviglioso, come non se ne vedevano da anni. L’eleganza, il tono e la misura con i quali Gilligan e Gould hanno voluto chiudere il cerchio sono una roba che farà scuola e con la quale tutti dovranno fare i conti. Tutti gli autori di un serial televisivo, negli anni a venire, dovranno misurarsi (poveretti) con l’episodio finale di Better Call Saul. Con la sua geniale circolarità e con la raffinatezza dei suoi riferimenti. Con la classe innata nel riportare sullo schermo vecchi e cari personaggi senza snaturare l’anima della serie o sminuendola minimamente rispetto a ciò che l’ha preceduta.

Con l’amara dolcezza con il quale si spegne, facendoci salutare Saul per l’ultima volta, da lontano, insieme a Kim, lasciandoci seduti sul divano a domandarci se rivedremo mai qualcosa di anche solo lontanamente paragonabile.

Questa forse è la parte più triste di tutta la storia: che probabilmente sarà impossibile eguagliare tutto questo, figuriamoci fare di meglio.

VI CONVIENE CHIAMARE SAUL!