Saint-Omer (2022): Recensione
Saint-Omer, recensione del film diretto da Alice Diop in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia dov’è stato presentato in anteprima il 7 settembre 2022
VOTO MALATI DI CINEMA (6,5 / 10)
Saint-Omer è il film diretto da Alice Diop basato su una storia di infanticidio avvenuta in Francia.
Un film statico, con pochi colpi di scena e scandito da lenti monologhi. Eppure un film che tiene lo spettatore incollato allo schermo.
La domanda che sembra tenere tutti con il fiato sospeso è: ‘’Perché ha ucciso sua figlia?’’. L’imputata stessa, Lawrence, in una registrazione si definisce come un fenomeno sconvolgente, perché sì, era una donna che aveva ucciso la figlia ma in un modo totalmente diverso dai precedenti. Con queste parole non si riferiva alle dinamiche dell’omicidio, tra l’altro poco chiare, poiché non fu l’efferatezza dell’atto ad essere sconvolgente, era l’omicida ad essere fuori dal comune.
La somiglianza con la Medea di Euripide è lampante ed è evidenziata dalla protagonista del film, Rama, una scrittrice che ritiene addirittura il mito indispensabile alla comprensione della storia.
Come Lawrence che dal Senegal migra in Francia per gli studi, Medea è una donna straniera che vive in un altro paese, la Grecia. Medea sin da subito evidenzia delle qualità che la differenziano dalle donne greche ossia il portamento, lo spirito selvaggio ed inoltre la spropositata cultura. La stessa potenza è intrinseca al personaggio di Lawrence che possiede a detta di tutti un’intelligenza ed un eloquio che stupisce una Francia forse ancora molto legata al pregiudizio. Eppure c’è nel suo modo di raccontare una abilità fuori dal comune. Lawrence non tenta di impietosire lo spettatore o di muoverlo emotivamente per portarlo dalla sua parte, non mostra isteria, né disperazione. Non una lacrima scalfisce la sua maschera di apatia che a tratti angoscia, a tratti nausea, ma più spesso convince.
La deposizione si svolge in un’aula di tribunale atipica. Essa per l’80% è costituta da donne. A partire dal giudice fino a chi trascrive il verbale, il sesso femminile sembra essere predominante, quasi a darci un’idea del pubblico designato alla comprensione del messaggio. A parte qualche giurato, la figura maschile preminente è quella dell’avvocato generale, costantemente intento a denigrare la figura dell’imputata. Accusandola di opportunismo, manipolazione ed efferatezza, le sue parole risuonano sullo sfondo della vicenda, ricordandoci la voce del pensiero comune e della società tutta. E’ un avvocato donna a difendere Lawrence, a portare il compagno di lei a testimoniare la sua codardia, costringendolo ad ammettere di aver abbandonato e nascosto prima la sua relazione con Lawrence e poi la sua stessa progenie, rifiutandosi di riconoscerla, a costo di rispedire entrambe in Senegal. Degno Giasone di questa storia attraverso il suo abbandono sancisce il triste destino di entrambe.
Più dello scontro uomo-donna è quello donna-donna e soprattutto quello madre-figlia ad essere interessante, a muovere i fili. Non è solo l’origine straniera ad unire Rama e Lawrence, è anche la maternità (poiché Rama è incinta di quattro mesi) ed il complicato rapporto di entrambe con le rispettive madri.
Lawrence racconta di un’infanzia solitaria, improntata sulla sua educazione e di un rapporto scostante con i genitori che riponevano in lei importanti aspettative, in particolare della madre, che a detta di Lawrence la spinge a diventare la donna che non era potuta essere. Racconta della pesantezza di quelle speranze, della sua fuga in Francia, del suo fallimento. Il padre si dimentica presto di lei, la madre continua a chiamarla spesso ma anche il suo interesse cala, fino a che le sue chiamate non diventano vuote, formali. Della madre di Rama non vediamo che alcuni flashback, di cui uno in particolare sembra essere emblematico: una ragazza molto bella e molto giovane, troppo giovane, che si guarda allo specchio mentre si prepara. Mentre infila gli orecchini d’oro, i bracciali spessi, gli anelli lussuosi e inizia a piangere. Adesso è più bella ma sembra anche più grande ed infinitamente più triste. La piccola Rama si siede al suo fianco e la guarda dallo specchio.
E’ da questo momento che alla prima domanda se ne sovrappongono altre, come ad esempio: ’’Cosa serve per spezzare una catena?’’
Per spezzare una catena prima di tutto è necessaria una catena, in questo caso, una catena di storie, di mostruosità, di sofferenze a cui Lawrence aggiunse la sua. Si chiuse nella casa del compagno per tutta la gravidanza, partorì da sola, accudì la bambina per quindici mesi senza mai uscire. Non disse mai a nessuno, se non al padre che la bambina era nata, non ne denunciò la nascita, la nascose al mondo. Eppure l’amò dal primo vagito, la massaggiò tutti i giorni, l’accudì e la nutrì per quindici mesi con dedizione. Dopodiché un giorno uscì di casa e l’affogò nel mare o lasciò che il mare la prendesse, questo non è chiaro.
Quando si è nati legati è difficile capirlo, si riconosce di essere prigionieri paragonandosi alla libertà degli altri. Prima di conoscere Lawrence, Rama non sapeva di essere in trappola, il suo malessere iniziò il giorno in cui iniziò a sentire la deposizione. Davanti ai suoi occhi vide un riflesso che le era familiare, vide se stessa e sua madre davanti allo specchio, ma più arrabbiate, fuori da ogni limite.
Quando l’imputata parla del periodo della gravidanza, si riferisce spesso ad uno stato di terrore allucinatorio a cui lei allude con il termine ‘’stregoneria’’. Lei stessa si chiede perché una donna della sua intelligenza avrebbe dovuto uccidere sua figlia se non perché in preda ad un sortilegio. Parla di stregoneria rifiutandosi di darne una definizione più leggibile, accusando l’occidente di essere cieco davanti all’evidenza delle prove da lei riportate. Ci prende in giro oppure è perfettamente consapevole che in pochi potranno capire? La stregoneria è stata da sempre intimamente congiunta al genere femminile: deve esserci qualcosa di miracoloso e crudele in chi genera una vita in un mondo di sofferenze. Forse era davvero questo che pensava Lawrence quando ha restituito sua figlia al mare, che non avrebbe potuto proteggerla dal mondo, come sua madre non aveva potuto proteggere lei.
Eppure certi fatti tradiscono questa versione, portando alla luce un quadro più complesso. La difesa nel discorso finale fa riferimento ad una figura mitologica: la chimera. Essa ha il corpo di capra, la coda di drago ed il muso di leone. Questa immagine mostruosa allude in realtà all’estrema umanità di una donna che troppo spesso viene giudicata esclusivamente come madre e raramente come persona, ricca e dilaniata da tutte le sue contraddizioni. Proprio come la chimera, Lawrence ha più di una faccia, più parti di sé la spingono al gesto mostruoso e definitivo. Ecco allora che il leone divora la capra, ecco che la razionalità lucida e crudele vince l’istinto materno, ecco che si fa strada la vendetta. Piccoli dettagli tradiscono la donna: un sorriso ambiguo rivolto a Rama, la sua ambizione, la soddisfazione di sua madre nel vederla sui giornali nonostante l’atrocità del delitto compiuto, una registrazione inedita nella quale Lawrence confessa di aver giocato la carta della stregoneria per confondere il giudice, di voler smascherare i veri responsabili.
Arriviamo dunque all’ultima domanda: ’’A cosa si è disposti pur di farla pagare ai propri carcerieri?’’
L’avvocatessa parla di una catena genetica che lega madre e figlie e figlia e madre, un legame imprescindibile ed impossibile da spezzare, neppure dalla morte. C’è nelle storie di queste donne un destino comune non scritto, una forza più potente della tyche, che agisce portandole una ad una alla perdita di se stesse. Ognuna di loro guarda la propria figlia crescere e lottare per sfuggire a quel destino, per riscattarsi, per riscattarle tutte ma la maledizione è nel sangue, le porta a fallire, ad accontentarsi, a sopravvivere. Una di loro, più folle delle altre decide che sperare che un’altra sia più forte di sé, che cercare il riscatto nella vita di un’altra non è farla libera ma esporla ad una duplice delusione ed al fallimento. Una di loro, più orgogliosa delle altre decide di punire se stessa, di mutilarsi pur di non darla vinta ai suoi carcerieri. Una più coraggiosa delle altre costituendosi davanti alla legge come imputata dell’assassinio di sua figlia punta il dito contro tutti noi e nel modo più abominevole, mostruoso e doloroso spezza la catena.