Bullet Train (2022): Recensione
Bullet Train (2022): Recensione
Bullet Train, recensione del film diretto da David Leitch con protagonista Brad Pitt. Uscito nelle sale statunitensi il 5 Agosto 2022.
VOTO MALATI DI CINEMA (8,5 / 10)
Dagli Stati Uniti arriva un treno-proiettile che viaggia su binari orientali. Bullet Train è l’ultima prova di un David Leitch che non smette di correre, e tre anni dopo Fast & Furious – Hobbs & Shaw regala al mondo del cinema un action movie su rotaie veloci.
Il protagonista della storia è Ladybug (coccinella), nome in codice del sicario interpretato da Brad Pitt, che si ritroverà nel bullet train da Tokyo a Kyoto. In questa tratta, di due ore di film di durata, affronterà più volte la morte e anche le molteplici declinazioni del significato di destino, impersonate dalla coralità dei criminali che incontrerà nei vagoni. I concetti di fortuna e sfortuna si snodano in più della metà delle scene, in una narrazione che annoda per bene più sotto trame insieme – come a Hollywood sanno fare – che convogliano pian piano per poi congiungersi perfettamente nel finale.
Liquidiamo la trama, che non apporta nessuna particolarità degna di nota se non quella di essere perfettamente in linea con qualsivoglia action statunitense: Yakuza, mafiosi russi e bandoleros messicani non stupiscono più, specialmente se soggiogati dalla classica superbia americana che li circonda e li assoggetta, come a voler sussurrare allo spettatore «tanto i più forti siamo sempre noi».
Intorno alla trama cose più notevoli, come il guizzo di un protagonista che dopo una crisi esistenziale sembra aver iniziato una nuova vita nel segno dello zen. Ciò ne deriva che, inserito in un contesto di lavoro come il suo, in mezzo a violenza e criminalità, le stonature siano molteplici come molteplici sono i sorrisi che scappano nel vederle.
Ancora una volta il contrasto – in questo caso quello che si crea tra l’atteggiamento zen e la violenza – è la chiave del successo cinematografico: Maestro Ėjzenštejn insegna ancora.
E il Giappone? Il Giappone non è mai solo un paesaggio, o solo un pretesto; non può esserlo. Il Giappone è un senso delle cose ben preciso, che purtroppo solo un giapponese potrebbe capire davvero. Comunque, possiamo goderci il tocco che Leitch & Co. usano per dare alla pellicola i colori del Sol Levante: una storia di famiglie e di vendetta, fiori di loto simbolici, slow-mo che giocano con i contrasti di fuoco e neve, anziani saggi. Il tocco orientale più significativo è, però, di Dominic Lewis. Il compositore inglese riesce meglio del regista nel connubio nippo-americano, costruendo musiche thriller adatte agli spezzoni cruciali del film, ma soprattutto che riescono ad integrare le sonorità tipiche di Hollywood, che ben empatizzano le scene di attesa o di scazzottate varie, ai timbri alti e delicati del giapponese, luogo in cui la musica sembra sempre riecheggiare da quel lontano Monte Fuji. USA e Giappone si trovano uniti nella musica, mentre nella narrazione sembrano più collaborare per una causa comune.
Il cast è cosmopolita e poliglotta, con personaggi che non hanno bisogno di farsi voler bene dallo spettatore ma devono essere bravi ad essere cattivi, e non è mai facile. Cito, su tutti, Brian Tyree Henry e Aaron Taylor-Johnson, fautori del duo a cui lo spettatore si può avvicinare di più, specialmente nel momento in cui parte ‘Five hundred miles’ in sottofondo. Il parterre degli attori è poi indorato da cameo importanti: Channing Tatum, Sandra Bullock e Ryan Reynolds – che ritrova Leitch alla direzione dopo la seconda prova di Deadpool del 2018.
Comunque, l’opera fa un’ottima figura d’insieme sembrando la puntata finale di una lunga serie, che però con sapienti flashback continui è riuscita a spiegare tutta la trama nel tempo di un film. Al di là della diegesi pura, Bullet Train non intende dare insegnamenti di vita sul concetto di destino. È, come è giusto che sia, un anziano giapponese – l’attore Hiroyuki Sanada – a darci la giusta inquadratura del film, in una topica scena segnata voracemente dalla luce del sole che lo spalleggia. Il saggio delucida Ladybug e lo spettatore sul movimento casuale di un destino che non può essere chiamato né ‘fortuna’ o ‘sfortuna’, ma di cui possiamo attendere i segni.
Per molti è facile rinchiudersi in termini di buona o cattiva sorte, quando invece ogni cosa che succede è semplicemente posta per farci essere dove dovremmo, nel momento che dobbiamo esserci, e non possiamo fare altro che avere fede in ciò che chiamiamo ‘destino’, perché non è imbrigliabile. Per parafrasare un altro esimio Maestro, non si può fermare il tempo ma solo fargli perder tempo.