- The First Slam Dunk (2022): Recensione
- Denti da Squalo dall’8 Giugno al cinema: ecco il trailer
Prendi l'arte e mettila… in un lettore DVD.
VOTO MALATI DI CINEMA (9 / 10)
Credit photo: ©Caroline Guimbal-Helicotronc-Tripode Productions
Il film si apre e si chiude con uno strappo lacerante. All’inizio vediamo la piccola Dalva in preda all’angoscia di perdere colui che pensa possa essere il suo unico bene.
Nella realtà siamo in presenza di un padre orco anche se per la figlia rappresenta l’amore assoluto e insostituibile senza il quale non si può più vivere.
Alla fine c’è invece un distacco accettato perché rielaborato, cercato e voluto fortemente e la mano che stringe quella dell’altro genitore è l’emblema di una riappropriazione dello status di figlia che ha il primario diritto di essere accudita, aiutata nella crescita, protetta dal male e lasciata libera di essere se stessa.
L’amore secondo Dalva è un film che affronta un tema molto difficile e molto insidioso per le derive torbide e pruriginose in cui sarebbe potuto scadere. La regista Emanuelle Nicot sceglie, avvedutamente, di non svelare all’occhio la relazione incestuosa lasciando solo immaginare cosa possa essere successo all’interno delle mura domestiche dove vengono apposti sigilli che delimitano un’area pericolosa dove si è perpetrato il più infamante, il più bieco e il più squallido dei reati.
Dalva è interpretata in modo efficace da Zelda Samson (premio per la migliore interpretazione al Festival di Cannes 2022).
Durante lo svolgimento della pellicola assistiamo ad una efficace e funzionale trasformazione anche fisica del personaggio. Se all’inizio l’attrice è bravissima a rappresentare una ragazzina adultizzata e resa schiava sessuale per soddisfare inconsciamente le perversioni malate del padre, nel proseguio risulta altrettanto credibile quando ritorna ad essere l’adolescente che si comporta come è naturale che sia a quell’età.
La fotografia è attenta a cogliere anche le più sottili variazioni e le minime espressioni sul volto intenso di questa madonnina raffaelliana che è costretta dalle circostanze ad indossare una maschera di trucco e abiti provocanti fino a mostrare il suo viso acerbo e pulito, candido e meravigliosamente illuminato da un raggio di sole che squarcia il velo di ignoranza e umiliazione che ha accompagnato la sua giovane vita.
La sceneggiatura in molti punti è labile e se non fosse per la potenza dirompente delle performances attoriali il film non risulterebbe così ben calibrato e riuscito.
Il film lascia un sentimento di smarrimento nello spettatore che resta attonito di fronte alla forza di una ragazzina che si autosalva quando prende coscienza del male che le è stato inferto da chi aveva il compito morale di proteggerla. La scrittura del personaggio è attenta a catturare le minime sfumature che le fanno compiere un’evoluzione verso il vero bene.
Il tutto è pervaso da un senso latente di impotenza, di sbigottimento e di repulsione che viene stemperato dalle parti recitative corali dove si respira un senso di pseudo normalità e allentamento della tensione.
Una pellicola che interroga chi lo guarda a porsi molte domande e a farsi un esame di coscienza circa la tutela dell’infanzia che può essere minata anche dietro l’apparente normalità di una casa con le tendine alle finestre.