Alaska (2015): Recensione
Alaska, recensione del film diretto da Claudio Cupellini con protagonisti Elio Germano e Àstrid Bergès-Frisbey.
Uscita nelle sale italiane: 5 novembre 2015
VOTO MALATI DI CINEMA (8 / 10)
Fausto, italiano, sogna di diventare maître e di aprire un suo ristorante. Nadine, francese, di professione modella, ha due occhi disincantati e un sorriso disarmante. Le loro vite si incrociano casualmente sul tetto di un hotel di lusso di Parigi, dove Fausto, interpretato da Elio Germano, lavora come cameriere e Nadine, l’affascinante Àstrid Bergès-Frisbey, sta facendo un provino per una casa di moda milanese. Ultimo piano e su di loro incombe un cielo plumbeo, che fa rimpiangere il sole e l’Italia.
Il loro incontro, che rivela sin da subito un’intesa tra i due fuori dal comune e una rara complicità, sarà determinante per la vita di entrambi.
Presentato alla Festa del Cinema di Roma 2015, Alaska rientra in piena regola nel genere drammatico, in quanto rappresentazione del dramma dell’esistenza, delle sue contraddizioni, delle sofferenze derivanti da un destino talvolta avverso (“E’ strano, è come se andasse bene a me, perché va male a te”), da un lieto fine mai certo. La serenità ambita e ricercata dai due giovani, come quella desiderata da Rosario Russo nella Vita Tranquilla (2010), altro capolavoro di Claudio Cupellini, è messa in pericolo dall’imprevisto che è sempre dietro l’angolo, pronto a confondere i loro piani.
E quando l’insoddisfazione insinua nella mente il dubbio che si potrebbe stare meglio, allora le cose si complicano e si ritorna al punto di partenza. Trama intensa e sviluppata con una certa maestria da donare agli eventi un ritmo incalzante, ma al tempo stesso naturale, come se realmente stessero accadendo. Naturalezza e realismo che appartengono anche ai personaggi, primi fra tutti i due protagonisti, ritratti con tutti i loro difetti umani e patetici: Fausto ha un’indole violenta, che gli costerà una condanna di due anni nel carcere di La Serè, ha paura della solitudine, è orgoglioso, frustato e ambizioso; Nadine non ha grandi aspirazioni, è disincantata ed ha un latente disturbo masochistico che la induce ad inseguire un uomo poco affidabile.
L’attenzione del regista è posta tutta su queste due figure, affascinanti e a tutto tondo, e sulla necessità che entrambi avvertono di amarsi, nonostante tutto, di rincorrersi, dopo essersi persi. Tuttavia, la tematica amorosa passa in secondo piano rispetto ad un tessuto narrativo meno scontato e più ambizioso, in cui si avverte l’esigenza di dar voce alle passioni umane nella ricerca della felicità.
Cupellini trasporta il pubblico nel mondo reale con una storia che diventa l’emblema della condizione dell’uomo moderno, tra solitudine e ambizioni, toccando a fondo nelle psiche di due personaggi che non hanno nessun altro al mondo se non loro stessi.
Lo stato di reclusione iniziale nel carcere di La Serè può, dunque, essere inteso come espressione dell’interiorità dei due personaggi, la frenesia con cui Fausto scrive lettere d’amore a Nadine come il continuo bisogno che noi tutti abbiamo di appartenere a qualcuno, per sfidare la sorte e la solitudine (devo pensare a qualcuno fuori di qui,
sennò mi lascio andare).
L’impresa di celebrare la vita, nelle sue molteplici sfaccettature, è favorita dalla magistrale interpretazione di Elio Germano e dall’eleganza dell’attrice spagnola Àstrid Bergès-Frisbey.
Capolavoro del cinema nostrano che tratta temi esistenziali senza mai scadere in patetismi e pietismi, regalandoci forti emozioni e qualche spunto di riflessione.