C’è tempo (2019): Recensione

C’è tempo, recensione del film diretto da Walter Veltroni con protagonisti Stefano Fresi e Giovanni Fuoco. Uscito nelle sale il 7 marzo 2019

VOTO MALATI DI CINEMA 6.5 out of 10 stars (6,5 / 10)

C’è Tempo: il tempo del viaggio e il tempo psicologico della crescita

C’è tempo narra della storia di un viaggio, di un amore fraterno tra Stefano e Giovanni. Stefano è un osservatore di arcobaleni, bambinone e inconcludente che da un giorno all’altro viene a sapere dell’esistenza di un fratello, appunto Giovanni, un bambino di 13 anni fan de I quattrocento colpi di Truffaut (nel film ci sarà anche il cameo di Jean-Pierre Léaud, attore celeberrimo di quel film).

La struttura della storia è abbastanza semplice: il viaggio dei due fratelli che con il passare del tempo si avvicineranno sempre di più. Due fratelli tanto diversi: uno piemontese e l’altro romano, si incontreranno nella mancanza dello stesso padre (Stefano nel film non lo chiama padre ma inseminatore). Un padre che non è stato presente per entrambi.
Walter Veltroni dichiara del film: “è la storia di un viaggio di due persone sole, legate da un filo che è il dna ma separate dalle condizioni sociali e dal tempo in cui sono nate e cresciute”. L’aspetto pregnante, ai miei occhi, è analizzare l’eredità in termini più psicologici.
Un’eredità prima “economica” e poi “psicologica” che i due fratelli scopriranno nel corso del film. Il viaggio assume un senso, assume un valore soltanto nel momento in cui la meta (Picanella, piccolo paese del Piemonte dove se non ci fosse uno specchio non ci sarebbe la luce) si allontana, nel momento in cui la direzione cambia, si cambia strada, si fanno delle soste, si vedono posti mai visitati.

Una svolta fondamentale nello sviluppo della storia è l’incontro con la cantante Simona, in tour, e sua figlia, le quali si uniranno al viaggio. Interessante è anche il gioco dell’amore tra la figlia e Giovanni e tra la cantante e Stefano. I due personaggi cresceranno grazie a questo incontro. Come al solito l’amore, e quindi l’affettività in termini più psicologici, permetterà ai protagonisti di crescere. (Lacan affermava che la psicoterapia è una domanda d’amore, e quindi forse attraverso l’amore si cresce).

Un viaggio che prenderà una direzione diversa: i quattro non andranno più a Picanella, ma si ritroveranno a Parigi dove incontreranno Jean-Pierre Léaud, attore del film preferito di Giovanni. Un sogno che si realizza, come un arcobaleno che si può toccare.

Il film è intriso di citazioni cinematografiche: l’auto ricorda quella del sorpasso, riferimenti a I quattrocento colpi di Truffaut, a Novecento di Bertolucci. Durante la visione ho avuto la sensazione che questo film fosse stato girato più da un amante del cinema che da un tecnico (mi permetto di dire questo non negativamente). Risulta evidente quanto Veltroni abbia voluto omaggiare il cinema e traspare il suo amore per esso, il rischio però è la carenza strutturale della trama in favore di forse “troppe” citazioni.

Un tema centrale è il cinema nel cinema come ho appena scritto e anche la funzione politica del cinema stesso. Veltroni era un politico ed anche un critico cinematografico, quindi non dobbiamo trascurare questo aspetto.

Dal punto di vista psicologico vorrei soffermarmi sulla psicologia dei due personaggi. Stefano, quarantenne immaturo, complessato, inconcludente, idealista e fintamente buono. Ciò che in psicoanalisi potremmo definire come nevrotico ossessivo, poiché non è in grado di vivere il suo desiderio nella realtà. Proietta desideri, frustrazioni, paure ed angosce nello studio degli arcobaleni. Questo sembrerebbe poetico sotto l’aspetto letterario, un po’ meno invece sotto l’aspetto psicologico. Scopre di avere un fratello, che accetta soltanto per l’eredità economica (100.000 euro). Per fortuna durante il viaggio quell’eredità materiale si trasforma in un’eredità psicologica, un amore fraterno da vivere.

Giovanni invece è un bambino che è cresciuto troppo presto, potrebbe essere quello che gli psicologi definiscono un bambino “adultizzato” o “iperadattato”, utilizza un linguaggio forbito ma di sicuro non appropriato per la sua età. Durante il viaggio il bambino crescerà (mi aspettavo durante il film la canzone di Francesco De Gregori La leva calcistica della classe ’68, ma purtroppo Veltroni tra le innumerevoli citazioni non l’ha scelta) ereditando la mancanza paterna che diventerà amore fraterno.

Il concetto psicologico fondamentale del film, a mio avviso, è il concetto di eredità. Cosa ce ne facciamo di quello che riceviamo in eredità? Come possiamo trasformare l’eredità economica in eredità psicologica?
Per provare a dare una risposta mi servo delle parole dello stesso Veltroni: “La vita è tenere dentro di sé la coscienza di essere stati bambini”. Riformulata in termini più psicologici questa frase significa che “la necessità ed il bisogno tipicamente umano di vivere le emozioni è possibile soltanto attraverso un viaggio.”