Sorry We Missed You (2019): Recensione
Sorry We Missed You, recensione del film diretto da Ken Loach. In uscita nelle sale cinematografiche italiane il 2 gennaio 2020
VOTO MALATI DI CINEMA (6,5 / 10)
A man with a van è il nuovo martire della working class britannica descritta da Ken Loach nel suo ultimo film, Sorry We Missed You, pellicola girata con uno stile semplice e spogliata da inutili estetismi registici. Alle prese con i debiti e il costante bisogno di soldi Ricky e Abby, sposati con prole, cercano in tutti i modi di darsi da fare, lavorando fino ai limiti del masochismo. Il primo consegnando pacchi per una ditta di spedizioni con il suo furgone e la seconda come carer per persone con diversi problemi, soprattutto fisici. Oltre a questo i due cercano di salvaguardare la propria unità familiare che sta correndo il rischio di andare in frantumi.
Ken Loach ci introduce, nella prima parte del film, in quelle che sono le dinamiche del lavoro di corriere di Ricky, nei suoi ritmi e meccanismi. Dice il regista – Una delle sfide principali è stata rendere efficacemente l’ambiente del deposito di distribuzione dei pacchi da consegnare, abbiamo dovuto conoscere nei minimi dettagli l’intero processo e fare in modo che ciascuno sapesse esattamente qual era il suo compito e poi abbiamo girato quelle scene come fosse un documentario. Ed emerge da questa cura dei particolari non solo la realistica descrizione di quell’ambiente ma anche l’assenza ormai quasi totalmente accettata e giustificata di qualsiasi tutela dei lavoratori (malattia, permessi, giorni di riposo), la corrosiva disumanizzazione dei rapporti con i propri managers, l’alienante catastrofe morale in cui sono piccole macchinette elettroniche a dettare i tempi della vita. Dice ancora Ken Loach – La tecnologia più sofisticata è nel veicolo dell’autista, detta i percorsi, consente al cliente di sapere esattamente dove si trova la spedizione che ha ordinato e il suo presunto orario di consegna. Il consumatore se ne sta seduto a casa a seguire il veicolo per tutto il quartiere. E’ un dispositivo straordinariamente sofisticato con segnali che rimbalzano da un satellite chissà dove. Il risultato è che una persona si ammazza all’interno di un furgone, andando da un punto all’altro, di strada in strada, correndo per soddisfare le esigenze imposte da questi strumenti. La tecnologia è nuova, ma lo sfruttamento è vecchio come il mondo.
Da questo spaccato sociale sempre in bilico sul baratro del fallimento riemergono nella loro vitalità i personaggi e gli attori che li interpretano. Nei continui problemi che li assalgono e nei tentativi di risolverli, negli attacchi di ira, negli sbagli e nelle rappacificazioni c’è una resistenza umana alle leggi del mercato che ci parla di quello che è veramente importante e non dovrebbe mai essere dimenticato, la solidarietà fra le persone, ciò che le lega e le unisce fra di loro. Non è tanto dunque nella denuncia di un sistema capitalistico divorante il merito di questa ennesima fatica militante di Loach quanto nel renderci vicini in maniera empatica e coinvolgente a una famiglia e al suo modo di affrontare i giorni nella loro frenesia inarrestabile, un modo che è molto anglosassone, dove si corre da una parte all’altra, ci si incazza, ci si sbronza, si parla, si litiga, ci si abbraccia e poi si ricomincia. Conclude il regista – Qui non si tratta del fallimento dell’economia di mercato, al contrario è la logica evoluzione del mercato, conseguenza della concorrenza selvaggia a ridurre i costi e ottimizzare i profitti. Il mercato non si interessa della nostra qualità della vita, è preoccupato solo di fare soldi e le due cose non sono compatibili. I lavoratori sulla soglia della povertà, come Ricky, Abby e la loro famiglia, pagano il prezzo. Ma alla fine tutto questo non conta a meno che il pubblico non creda alle persone che vede sullo schermo, non le abbia a cuore, non sorrida con loro, non condivida i loro problemi. Sono le loro esperienze vissute, riconosciute come autentiche, che dovrebbero toccarci.