Pinocchio (2019): Recensione
Pinocchio, recensione del film diretto da Matteo Garrone con protagonisti Roberto Benigni e Federico Ielapi. Uscito nelle sale il 19 dicembre 2019
VOTO MALATI DI CINEMA (6,5 / 10)
Quella del burattino senza fili, creata da Collodi nel 1883, è ancora una delle più belle fiabe da raccontare ai bimbi. Ne sa qualcosa Matteo Garrone che, nel presentare il suo Pinocchio, ha dichiarato di esserne ossessionato sin da piccolo.
E così, il regista romano, ormai giunto all’età matura, ha deciso di mettere su pellicola (nell’era digitale si fa tanto per dire) la storia della marionetta di legno e di tutti i suoi pittoreschi compagni di avventure.
Nel far ciò, Garrone stesso torna bambino e, prima ancora che alla storia in sé, si affida al potere immaginifico della favola collodiana puntando forte sull’aspetto visivo.
Il risultato, sotto questo punto di vista, è semplicemente straordinario: dai costumi al trucco; dalla scenografia agli effetti speciali artigianali: ognuno di questi elementi sembra funzionare alla perfezione per raccogliersi in un unicum straordinario catturato dalla altrettanto eccezionale fotografia firmata Nicolaj Bruel, già collaboratore di Garrone in Dogman (2018).
Questo “Pinocchio”, dunque, conquista per la potenza dell’immagine. Sequenze come quelle del teatro di Mangiafuoco e della pancia del Pescecane sono dotate di una potenza figurativa che di per sé valgono il prezzo del biglietto.
Peccato per l’aspetto narrativo, messo in secondo piano troppo disinvoltamente, come se al regista non interessasse molto raccontare una storia, ma semplicemente illustrarla.
Non l’aiuta, in tal senso, nemmeno la sceneggiatura da lui stesso scritta con Massimo Ceccherini, troppo appiattita sulla favola originale.
Ne risulta un racconto senza brio, poco fluido, eccessivamente meccanico, che non consente allo spettatore d’immedesimarsi coi suoi personaggi.
Ciò non vuol dire che manchino scene degne di rilevanza: si pensi alle comiche scivolate di medici, grilli parlanti, becchini & Co. sulla bava di Lumaca o all’esilarante processo condotto da un giudice gorilla (alzi la mano chi non s’è fatto una risata!).
Efficaci sono anche le scene macabre dell’impiccagione di Pinocchio e del suo affogamento in mare una volta diventato ciuco.
Eppure – ripetiamo – scarseggiano la commozione e l’empatia, elementi essenziali in un racconto del genere.
Il film di Garrone beneficia di un cast stellare, di cui fanno parte, tra gli altri, un misurato Roberto Benigni nel ruolo di Geppetto, un credibile Gigi Proietti nel ruolo di Mangiafuoco, degli efficaci Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini nel ruolo del Gatto e della Volpe.
Ma i personaggi che catturano di più sono altri: la splendida Lumaca (Maria Pia Timo), il simpatico Grillo Parlante dall’accento napoletano (Davide Marotta), il pedante Maestro (Enzo Vetrano).
Poco espressiva, invece, è parsa la bellissima Marine Vacht nel ruolo della Fata Turchina.
Bravissimo, invece, il piccolo Federico Ielapi nei panni di Pinocchio, dinamico e anarchico al punto giusto, sebbene limitato nell’espressività dal pesante trucco (“Eh, grazie, è di legno, che espressioni dovrebbe avere!?” – direte voi. “Eh, vabbè” – rispondo io – “Uno a zero per voi…”).
A chi ha una certa età, inoltre, questo Pinocchio non può non far venire in mente Le avventure di Pinocchio di Comencini (1972).
Ebbene, va premesso che si tratta di due opere completamente diverse.
Pur partendo dallo stesso soggetto, infatti, quello di Comencini è un racconto diretto all’illustrazione dell’infanzia e della sua forza; interessato, al contrario di Garrone, più alla storia del bambino Pinocchio e al contesto sociale che all’immaginario fantastico creato dalla favola stessa.
Non bisogna dimenticare, inoltre, la diversità di struttura tra l’opera del 1972 e quella di oggi, dal momento che, al contrario di quest’ultima, la prima fu concepita come sceneggiato televisivo di 5 puntate e che solo successivamente ne venne realizzata una versione di 135 minuti.
Ma, al di là di tutto, il Pinocchio di Comencini è nel suo genere un capolavoro, capace, con le sue atmosfere e i suoi interpreti, di influenzare l’immaginario collettivo e di far sì che, ancora oggi, al solo sentir pronunciare il nome Pinocchio, almeno tra i meno giovani, appaia il volto dallo sguardo monello e iconico del piccolo Andrea Balestri.
Quello di Garrone, invece, è tuttalpiù un film discreto; un’opera in cui non emerge la volontà di mettere in campo grandi temi, ma semplicemente il desiderio del regista di omaggiare attraverso le immagini una favola eterna appartenente a tutti; di mostrarci, attraverso il potere d’immaginazione evocato dalla propria infanzia, il volto della nostra smisurata fantasia di bambini.
Il volto, però. Non l’anima.