L’Atalante (1934): Recensione
L’Atalante, recensione e analisi del film diretto da Jean Vigo nel 1934, seconda e ultima opera del regista francese
VOTO MALATI DI CINEMA (8,5 / 10)
«Qual era il segreto di Jean Vigo? È probabile che vivesse più intensamente della media della gente.»
– François Truffaut
François Truffaut, pioniere della Nouvelle vague, vide per la prima volta L’Atalante a 16/17 anni: “Mi ha sorpreso molto, non avevo letto tanto sul cinema, dunque, mi fidai di un CineClub che frequentavo da un po’ di settimane, annunciarono Jean Vigo nel programma e andai. Nella stessa serata, vidi Zéro de conduite e L’Atalante. Fu stupefacente. In Vigo scoprii qualcosa di nuovo e incredibile. Ebbe un effetto fortissimo su di me”. È così che Truffaut descrive la prima visione dell’Atalante. Secondo Truffaut: “Jean Vigo fu il primo regista professionista di Avanguardia, portatore di un equilibrio meraviglioso tra estetica e realismo; il cinema, è successivamente diventato troppo sofisticato, perdendo quello che è il cruciale rapporto con la realtà, contatto che ritroviamo nei fratelli Lumière, in Antonioni e nell’Atalante;” Ecco perché, continua Truffaut: “Vigo dovrebbe avere una grande influenza nel cinema di oggi, che probabilmente non ha, perché morto troppo giovane.” Il cinema di Vigo, asserisce il regista, non si è risvegliato che con la Nouvelle Vague nel 1959. Il vero discendente dell’Atalante è infatti “Fino all’ultimo respiro” (1960). Questo estratto di un intervista fatta da Rohmer a Truffaut nel 1968, ci fa in breve comprendere l’importanza di un regista e di un’opera dimenticata fin dal momento della sua uscita.
Come accenna Truffaut, Jean Vigo morì a soli 29 di tubercolosi, non potendo così esprimere a pieno il suo genio. Le sue poche opere precedenti, tre cortometraggi/mediometraggi, di cui solo l’Atalante, è il primo e ultimo lungometraggio di finzione, vengono negli anni trenta considerati antipatriottici e addirittura censurati. Questo è il caso di “Zéro de conduite”(1933), film di 47 minuti che narra la vicenda autobiografica, di una ribellione anarchica da parte di un gruppo di collegiali. Il mediometraggio fu censurato fino al 1945 (nacquero da qui i primi problemi con la censura), non permettendo a Vigo (morì nel 1934) di vedere il successo e l’importanza che il suo lavoro acquistò postumo. L’influenza di “Zéro de conduite” è però confessata nel secondo corto di Truffaut “Les Mistons” (I Monelli), dove Truffaut, iniziando a tessere quello che sarebbe stato il filo rosso di una buona parte della sua filmografia, mette in scena un gruppo di ragazzetti invaghiti di una giovane ragazza, i quali non smettono di perseguitarla, beffandosi di lei.
Un altro cenno, va sicuramente fatto al primo cortometraggio di Vigo, “À propos de Nice” (1930), che si inserisce a pieno titolo tra le “Sinfonie urbane”, opere di cinema documentaristico sociale che pongono l’accento sulla caoticità e varietà delle metropoli urbane in trasformazione, costruendo non solo un’immagine pittorica, ma anche musicale e ritmica delle città. Proprio con questa prima opera, inizierà il sodalizio tra Vigo e Boris Kaufman, fotografo e fratello di Zgiga Vertov (regista sovietico, di grande ispirazione per Vigo, il quale un anno prima gira il capolavoro “L’uomo con la macchina da presa”), che lo aiuterà a portare a termine l’Atalante nel 1934, quando Vigo già ammalato, si aggravò durante le riprese.
Le riprese dell’Atalante, iniziarono nel 1933 e si concluserò quando Vigo era appunto molto malato, riuscì, infatti, a vedere solo un primo montaggio. Grazie a Boris Kauffman (direttore alla fotografia) e Louis Chavance (montatore) l’opera fu conclusa; Prodotta dalla Gaumont, uscì nelle sale il 14 settembre 1934, dopo aver però subito vari tagli di censura (almeno 20 minuti) e con un nome diverso da oggi “Le chaland qui passe”. Nelle sale il film fu un vero disastro, nonostante la grande produzione Gaumont, che diede a Vigo, per la prima volta nella sua fulminante carriera, l’occasione di lavorare con attori conosciuti come Michel Simon (Père Jules) il quale aveva da poco lavorato con Renoir; Dita Parlo (Juliette), ancora non molto conosciuta perché appena tornata in Francia ma ben promettente; Jean Dasté (Jean),che aveva lavorato con Vigo nei suoi due corti precedenti.
L’Atalante è la storia di Juliette, una giovane e bella ragazza, che abita in un paesino di mare. All’inizio del film si è appena sposata con il giovane Jean, anche se una delle prime sequenze del film, più che darci l’idea di un matrimonio, ci rende quella di un corteo funebre, di un paese in lutto, per una delle sue ragazze che sparisce per sempre via mare. Jean è infatti, il comandante dell’Atalante, una chiatta che naviga lungo il canale dell’Oise, insieme al suo equipaggio, un mozzo e Père Jules. Père Jules è uno strambo e apparentemente rozzo marinaio, ricoperto di tatuaggi e sommerso dai suoi gatti, al quale Juliette, al principio, non starà molto simpatica. Subito dopo il matrimonio, l’Atalante salpa, per quella che dovrebbe essere la luna di miele dei due sposini, ma anche uno dei soliti viaggi commerciali. L’equilibrio della chiatta, viene però subito disturbato da Juliette, che si introduce come un elemento di disturbo; Juliette, al principio curiosa, follemente innamorata e indaffarata nelle pulizie di bordo (Père Jules non sarà molto felice di tutta questa pulizia), è una ragazza dagli occhi che brillano, positiva e ingenua. Una sequenza memorabile, a questo proposito è quella dove: Jean è alle prese con la pulizia mattutina, con la faccia immersa in una tinozza di acqua, quando Juliette esclama “Come hai tenuto gli occhi chiusi?” “Non sai che nell’acqua si vede la persona che si ama?”.
Con i giorni che passano però Juliette, non sarà più così entusiasta, la noia prenderà il sopravvento e resterà delusa capendo che la vita che pensava di vivere non è quella che in realtà vivrà. Juliette sogna Parigi, ma Jean le risponde che per ora Parigi, può ascoltarla solo dalla radio di bordo, non importa quanto sia lontana o vicina, l’importante è che si senta. La nota positiva è però quella del rapporto tra Juliette e Père Jules, i due si stringono sempre di più passando del tempo insieme; l’immagine è quella di una ragazza e della sua innocenza nei confronti dei molteplici usi del mondo e quella di un uomo vissuto, che di esperienze ne ha fatte tante e anche abbastanza particolari. La cabina di Père Jules è un mondo a parte, foto, gatti e cimeli di una guerra e ancora gatti. Una sequenza, è simbolo di questa stravagante amicizia appena nata: Père Jules si taglia con una lama quasi appositamente e Juliette cercando una benda per medicarlo, trova una foto di un amico di Père Jules, morto anni prima, e non solo la foto, anche un barattolo con dentro delle mani mozzate, che a detta sua, sono proprio quello che è rimasto dell’amico. Le giornate scorrono e Juliette aspetta il giorno della sua prima uscita. L’Atalante, finalmente, approda a Parigi, ma Père Jules pensa bene di uscire, senza avvertire Jean, che dovrà quindi restare a bordo, costringendo ancora Juliette alla reclusione nella chiatta. Jean, cercando di rimediare alla serata finita male, il giorno seguente, la porterà in una specie di osteria, dove conoscerà un illusionista e animatore, che invaghito di lei, le prometterà le luci della grande città parigina, cercando di sedurla. Una notte Juliette, annebbiata dalla visione di una grande città, di nuovi luoghi e nuove persone e dopo tanti battibecchi con il neo-marito, deciderà di fuggire; Jean accorgendosene, furioso e deluso, decide di salpare, lasciando Juliette sola nella metropoli. I primi momenti saranno quelli della fascinazione assoluta verso la magia della città, che saranno poi mandati via, dalla realizzazione di essere completamente sola in una città caotica e irrefrenabile che la esile sposina non riesce a controllare. Vagherà sola, in cerca di un posto dove stare e di un lavoro. Ora, la città, non sembra più calda e accogliente, ma fredda, estrania, tutti sembrano fregarsene di lei, come se non la vedessero nemmeno. Questo è il realismo che offre Vigo, Parigi non è un set, e nemmeno la fabbrica davanti alla quale passa Juliette mentre gli operai sono in coda.
È un realismo tangibile, equilibrato, che, da qui a poco, sfocerà nell’ossessione del realismo carnale vigotiana. Nel frattempo, anche Jean, sente la forte solitudine e il senso di colpa; giunge la sera e i due innamorati, grazie ad un montaggio alternato e molteplici dissolvenze tra i due letti, si mescolano e si confondono, bramandosi: è un autotastarsi, autopercuotersi, autosfiorarsi, accompagnato da risvegli gelidi, che fanno sprofondare i due innamorati, nella invivibile mancanza di amore. Vigo ci dona sequenze a tratti allucinatorie, febbricitanti, dove quasi ci sembra di sussultare anche noi al tremolio di due corpi che esplodono di passione, una passione, che però deve astenersi dallo scoppiare.
La scena più celebre dell’Atalante, che riprende le parole di Juliette nelle prime sequenze del film “Non sai che nell’acqua si vede la persona che si ama?”, mostra Jean, che proprio ricordando le parole dell’amata e trasportato da un gesto di pazzia amorosa, si getta in mare, sperando di scorgere l’amata nelle acque sottostanti l’Atalante. Jean vede davvero Juliette, la scorge nelle scure acque mentre vestita da sposa gli sorride. Quel sorriso, è un sorriso da brividi, un sorriso che ci fa sussultare, che ci tocca. Non è un sorriso che riguarda solo l’amore tra i due, è un sorriso che ci interpella, che ci fa sentire chiamati in causa. È quasi come se Juliette, stia sorridendo a noi, è un sorriso che racchiude la poesia del reale che il cinema di Vigo ci sta offrendo: la nascita di una connessione empatica tra più individui (regista, attore, spettatore) che è metafora stessa del cinema, è passione per il cinema.
Prima di giungere alle conclusioni, vorrei riprende un’osservazione che Truffaut fa, a proposito dell’amicizia nata tra Juliette e Père Jules citata precedentemente. Il loro rapporto ci rimanda ad un altro bizzarro e crudo rapporto della storia del cinema, quello tra Gelsomina (Giulia Masina) e Zampanò (Anthony Quinn) nella Strada di Federico Fellini (1954); la giovialità, l’ingenuità e la fragilità di Gelsomina, mitiga il carattere burbero di Zampanò, formando un equilibrio perfetto, che però, contrariamente a L’Atalante, culminerà in tragedia. È proprio da questo parallelismo che parto per analizzare il meraviglioso finale dell’Atalante: sarà Père Jules a ritrovare Juliette in un negozio di dischi, seguendo la melodia di una canzone tradizionale di marinai, che proprio Juliette aveva fatto partire. Père Jules, si avvicina a lei, Juliette lo riconosce nel riflesso che il suo viso proietta sul bancone, sussulta e si allontana quasi incredula ma profondamente rasserenata nel rivederlo; Père Jules la solleva, se la mette sulla spalla e la porta con sé, facendo impaurire i passanti, che ignari del ricongiungimento fiabesco tra i due, gridano al rapimento. Così, termina il primo e, purtroppo, anche ultimo lungometraggio del condannato genio che era Jean Vigo. Voglio concludere questa analisi, come l’ho iniziata, citando Truffaut, che a sua volta, cita Ingmar Bergman, il quale parlando dello stato d’animo con cui il regista doveva trovarsi dietro alla macchina da presa, propone un ultimo stadio di vita “Bisogna girare ogni film come se fosse l’ultimo”. È proprio cosi che Jean Vigo girò L’Atalante.