Gli anni più belli (2020): Recensione

Gli anni più belli, recensione del film diretto da Gabriele Muccino. Uscito nelle sale italiane il 13 febbraio 2020

VOTO MALATI DI CINEMA 5.5 out of 10 stars (5,5 / 10)

Gabriele Muccino fa un cinema dichiaratamente popolare, un cinema onesto, per il grande pubblico. Ma sconta da sempre una certa ostilità da parte della critica e anche da parte di un pubblico con la puzza sotto al naso. Muccino è uno che nei suoi film sa mantenere alto il ritmo, come muove lui la macchina da presa pochi in Italia. Ha poi una grande cura degli attori, che con lui recitano benissimo. Ed è uno dei pochi registi italiani che porta la gente al cinema, è ormai un brand. Ma con tutte le migliori intenzioni, il suo ultimo film, Gli anni più belli purtroppo non convince.

Di cosa parla?
È la storia di tre amici raccontata nell’arco di quarant’anni, dal 1980 ad oggi. Uno dei tre, Paolo, si innamora di una ragazza, Gemma, ma lei sarà costretta a trasferirsi e i due si lasceranno. Negli anni le strade dei tre inevitabilmente cominciano a separarsi: Paolo (Kim Rossi Stuart) diventa professore inseguendo il sogno di un posto fisso, Riccardo (Claudio Santamaria) fatica a trovare lavoro come giornalista e critico, Giulio (Pierfrancesco Favino) diventa un avvocato di successo rinnegando i propri valori. Un nuovo incontro tra Paolo e Gemma (Micaela Ramazzotti) aprirà nuove strade. Sullo sfondo un’Italia che cambia. Il film è dichiaratamente ispirato al capolavoro “C’eravamo tanto amati”, potremmo dire che è quasi un remake.

La storia del Paese
Un film che raccontasse finalmente il nostro recente passato poteva essere un’ottima idea, che desse voce a quegli anni 90 e 2000 totalmente trascurati dal nostro cinema (che ormai si è fermato invece ai ‘60, ‘70 al massimo ’80). Raccontare come ci hanno cambiato il periodo dell’edonismo e la crisi economica e politica di questi anni. Ma purtroppo è un’occasione mancata. A differenza del capolavoro di Ettore Scola, in questo film la Storia passa accanto ai protagonisti, è solo uno sfondo, non influisce sulla loro vita. È la solita girandola di amori e di amicizie che poteva essere ambientata in qualsiasi epoca. Questo è il difetto più grande del film. Forse si voleva parlare di una generazione senza ideali, che a differenza di quella precedente non è stata per nulla condizionata dalla politica e si è ripiegata sul privato, ma comunque non funziona.

Il pessimismo mucciniano
Tutti i difetti di solito impuntati a Muccino purtroppo qui spiccano. L’amicizia tra i tre è poco credibile, è tutto troppo costruito, artefatto (si vedano le cene in trattoria). Si prendono tutti troppo sul serio e non c’è l’ironia dei suoi migliori film. Soprattutto manca il classico pessimismo mucciniano. Muccino non condanna i suoi protagonisti, neanche quelli che dovrebbero essere negativi come il personaggio interpretato da Favino. Si salvano tutti in un finale conciliatorio che rende il film innocuo e privo di mordente. Venendo meno alla sua solita visione negativa dei sentimenti, della famiglia e della vita si perde anche il senso del film. Poi si nota una lieve misoginia nelle descrizioni femminili. Le donne sono o poco di buono o isteriche. Nei film precedenti avevano più spessore.

Lo stile di Muccino
Muccino gira il suo melodramma come se fosse un kolossal, con la musica sparata a palla e la recitazione sopra le righe. È il suo stile. La sua perizia tecnica è evidente nella scena in cui Gemma sale le scale mentre cambiano le epoche, che è un capolavoro di regia. Ma anche nella cura della recitazione dei giovani attori, identici in tutto e per tutto agli attori da grandi. Tant’è che quando cambiano non si percepisce la differenza. Una scelta accurata di casting non comune nel cinema italiano. Gli anni più belli infatti è salvato dagli attori, che rendono credibili battute che affonderebbero chiunque. Si potrebbe obiettare che i soliti attori interpretano sempre gli stessi ruoli ma lo star system è questo. Gli attori devono essere riconoscibili. La Ramazzotti è ormai la Sandrelli degli anni 2000. La recitazione dimessa di Rossi Stuart, l’autorità di Favino, la vitalità di Santamaria danno senso al film. Brava a sorpresa anche Emma Marrone.

L’ambizione di Muccino
Va comunque lodata l’ambizione di Muccino. Nonostante l’ostilità di tutti non ha avuto paura di toccare un riconosciuto capolavoro. Molti registi hanno più o meno citato il film di Scola senza mai avere il coraggio di ammetterlo, lui invece ne ha proprio acquistato i diritti. L’ha preso di petto senza vergognarsi e senza paura delle ovvie critiche. Con la voglia di creare un racconto corale che però purtroppo non diventa mai epico. Come sempre la pellicola non annoia e il pubblico ha apprezzato. Muccino resta comunque un cineasta più interessante di altri incensati dalla critica che non hanno alcun dialogo col pubblico. Uno che si butta in grandi operazioni, che non fa film minori, che ha ambizione e coraggio.