L’orribile segreto del dottor Hichcock (1962): Recensione

L’orribile segreto del dottor Hichcock, recensione del film diretto da Roberto Freda uscito nelle sale italiane il 23 agosto 1962

VOTO MALATI DI CINEMA 7.5 out of 10 stars (7,5 / 10)

Quando “L’orribile segreto del dottor Hichcock” esce nelle sale cinematografiche della Penisola, nessuna pellicola prodotta nel Belpaese ha ancora osato affrontare lo scottante tema della necrofilia.
Ci pensano Riccardo Freda ed Ernesto Gastaldi a violare il tabù, comparendo sulle locandine del film con i due pseudonimi anglofoni di Peter Hampton e Julyan Perry (allora era di gran moda), che li identificano, rispettivamente, come regista e sceneggiatore, mentre la fotografia è di Donald Green, alias Raffaele Masciocchi.
Abbandonato il filone storico-avventuroso imboccato negli anni Quaranta/Cinquanta, e i peplum del decennio successivo (“Gli Argonauti” è del 1960, seguito due anni dopo da “Maciste all’inferno”), il regista nato ad Alessandria d’Egitto torna a esplorare il filone horror-gotico dopo la prima incursione del 1958, quando, supportato al trucco e alla fotografia da Mario Bava, con “I Vampiri” la filmografia italiana inizia a familiarizzare con un genere del tutto avulso dai fremiti neorealistici del secondo dopoguerra, che si ispira piuttosto ai successi della casa di produzione britannica Hammer (“L’astronave atomica del dottor Quatermass” e “La Maschera di Frankenstein”, fra gli altri).

Il risultato è “L’orribile segreto del dottor Hichcock”, una pellicola passata pressoché inosservata all’epoca, ma che sarà rivalutata negli anni, diventando un cult di genere.
Il plot ricalca la falsariga della classica ghost story, con un eccentrico luminare della medicina, Bernard Hichcock (interpretato da Robert Flemyng) che, agli albori del Novecento, vuole provare il piacere proibito dell’amore necrofilo provocando la morte consenziente della moglie Margherita, con una dose di un anestetico di sua invenzione. Segue abbandono della villa e successivo ritorno anni dopo, in compagnia della seconda moglie Cynthia (nei suoi panni, la ventiquattrenne Barbara Steele), che ben presto scoprirà a sue spese l’orribile segreto del consorte.

Girato in meno di due settimane, Freda declina il genere con un taglio e uno stile personale e, in tal senso, la figura del mad doctor gli è propedeutica per evocare l’idea di un Male endogeno alla società, personificato da persone comuni.
Il richiamo a Sigmund Freud, “un medico di grandi ingegno”, secondo le parole di un collaboratore di Hichcock, il dottor Kurt (un giovanissimo Silvano Tranquilli) – giunto direttamente da Vienna per collaborare nella clinica del professore – cerca di iniettare nella pellicola robuste dosi di riferimenti psicoanalitici (“Tre saggi sulla sessualità” è edito nel 1905), delineando la cifra narrativa di Freda, lontana dalle suggestioni sci-fi colme di mostri provenienti da un altrove sconosciuto. Sono piuttosto le ossessioni della psiche umana e le sue morbosità a interessare il regista, e in tale prospettiva si colloca la perversione necrofila, argomento che non può che trovare evidenza nella tassonomia dei temi sottoposti all’occhio inquisitore della censura, che taglia numerose scene per non turbare l’immaginario degli italiani, immaginario che, da lì a poco, sarà allietato dalle prurigini della rivoluzione sessuale, quando, per la prima volta, il tema della sessualità uscirà dal segreto dei confessionali o delle sedute analitiche, per diventare argomento di un discorso pubblico complessivo.
La necrofilia, dunque: un disturbo sessuale appartenente alla categoria delle parafilie, definita dal DSM III-R “investimento erotico in scene macabre, con rituali funerei che si spingono al congiungimento sessuale con cadaveri”… come quello di Margherita, perché il desiderio del dottor Hichcock si può nutrire solo nella perdita, riducendo l’amata moglie a niente più che un feticcio impossibilitato ad abbandonarlo, con il quale poter rivivere le sue fantasie in eterno.

Avvalendosi della efficace fotografia di Raffaele Masciocchi e delle suggestioni della colonna sonora del compositore e pianista rumeno Roman Vlad, Riccardo Freda costruisce un’atmosfera originale, dando vita a un orrore psicologico realistico, un orrore che apre la strada alle successive produzioni affidate a Lucio Fulci e Dario Argento. Con l’ausilio di inquadrature che privilegiano lenti movimenti di macchina all’interno degli spazi claustrofobici e labirintici (la location è una villa abbandonata nel quartiere Parioli, con parco e cimitero privato), l’occhio della cinepresa cerca di catturare l’interiorità del dottor Hichcock, limitando i dialoghi all’essenziale, evitando eccessive spiegazioni e lasciando a beneficio dello spettatore solo la forza espressiva di sequenze gravide di una suspense crepuscolare che scolora in angoscia oscura. È un temperamento melanconico e decadente, ad ammantare la personalità del professor Bernard Hichcock, in contrasto col positivismo della sua professione, e che fa di lui una figura guidata dall’istinto, seppur perverso. Siamo nel 1962: l’anno di capolavori come il “Sorpasso”, di Dino Risi, di “Mamma Roma”, di Pier Paolo Pasolini e di “Cronaca familiare”, di Valerio Zurlini.

Senza pretese di autorialità, con scarsi mezzi, facendo di necessità produttiva virtù estetica, un grande artigiano del cinema di genere come Riccardo Freda confeziona una pellicola capace di insinuare tematiche border-line, regalando al protagonista lo statuto dell’outcast (il mad doctor), ma con la libertà morale dell’outsider.
Per tutto questo, consiglio la visione del film.