The French Dispatch (2021): Recensione

The French Dispatch, recensione del film diretto da Wes Anderson con protagonista Timothée Chalamet. Uscito nelle sale italiane l’11 novembre 2021

VOTO MALATI DI CINEMA 7.5 out of 10 stars (7,5 / 10)

La redazione del French Dispatch, edizione europea della rivista americana Evening Sun di Liberty, Kansas viene sconvolta dall’improvvisa morte del suo editore e mentore Arthur Howitzer (Bill Murray). I suoi collaboratori, seguendo alla lettera le istruzione che ha lasciato nel suo testamento, realizzano un ultimo numero commemorativo della rivista, prima di cessarne per sempre la pubblicazione. Il French Dispatch morirà insieme al suo creatore. Per l’occasione, nel numero in uscita, la redazione pubblicherà alcuni tra i migliori articoli della storia del settimanale.

Per registi o, meglio, per autori come Wes Anderson mi viene in mente un’espressione che amava usare un mio vecchio direttore editoriale. Diceva che quelli come lui “profumano cinema”. Ed è vero, Wes Anderson profuma cinema e The French Dispatch rappresenta l’ennesima dimostrazione che lui il cinema lo vive in un modo che è difficile spiegare a parole. Wes Anderson nei suoi film ci annega e in questo suo romantico naufragare, trascina sul fondo anche lo spettatore, che si addormenta cullato dalle onde di questa marea artistica senza fine per poi svegliarsi e tornare in superficie e scoprirsi migliore di quanto non fosse prima di entrare in sala.

Anderson, ancora una volta, sorprende e spiazza il suo pubblico. Chi si aspettava una coralità in stile Grand Budapest Hotel si troverà piuttosto deluso, soprattutto guardando al cast quasi irrealistico (Bill Murray, Benicio Del Toro, Timothée Chalamet, Léa Seydoux, Anjelica Huston, Tilda Swinton, Adrien Brody, Owen Wilson, Edward Norton, Willem Dafoe, Christoph Waltz, Elisabeth Moss, Jason Schwartzman, Frances McDormand… che dite? Bastano?) che si ritrova sorprendentemente sparpagliato per i cinque capitoli di cui è composto il film, senza grandi possibilità di interazione. La pellicola, infatti, è volutamente slegata e frammentata, dovendo ripercorrere la storia del settimanale (ispirato al New Yorker, rivista di cui Anderson è stato sempre un avido lettore) su diversi piani temporali e soprattutto attraverso articoli di vario genere scritti da diversi redattori. Una soluzione che infonde al film un’anima episodica ma non per questo meno godibile, forse un filo più pesante, quello sì. Il film tuttavia, come dichiarato dal regista, è realmente una lettera d’amore al giornalismo e rappresenta il massimo esempio del cinema di Anderson, sia a livello visivo (sorprendente come sempre) che narrativo (questi dialoghi fiume quasi frastornanti come il martellante rumore dei tasti di una macchina da scrivere, percossi da un redattore ispirato che sta per terminare il miglior articolo della sua carriera).

Se si riesce a guardare oltre una sceneggiatura piuttosto appesantita dai dialoghi (pronunciati però da personaggi logorroici per natura) ed un leggero squilibrio generale nel minutaggio dei vari interpreti, infatti, si riescono a scorgere impercettibili sfumature che faranno arrivare The French Dispatch dritto al vostro cuore. Come l’istrionico direttore del giornale, un misurato e centellinato Bill Murray, di cui si avverte la presenza sempre e comunque, soprattutto quando non è in scena. Il suo personaggio, ispirato ad Harold Ross, il fondatore del New Yorker, ago della bilancia e cartina tornasole di ogni articolo della rivista, è un deus ex machina schivo e silenzioso, quasi burbero e scortese nel modo di rivolgersi ai suoi collaboratori, salvo poi farsi scoprire padre amorevole nel momento del bisogno. A suo modo, il film, è anche un gigantesco omaggio al Bill Murray attore, a cui Wes deve tanto, forse tutto e lo dimostra incentrando praticamente tutto il film sulla sua figura nonostante possa sembrare il contrario, viste le poche sequenze che lo vedono protagonista. Un inchino elegante e devoto verso uno dei migliori attori della sua generazione.

Non è un film per tutti. Stavolta, più che mai, Wes Anderson realizza un film molto personale, un film per sé stesso. Un film che rispecchia una delle sue più grandi passioni, quella per il giornalismo (e più nello specifico quella per il New Yorker, di cui possiede un’enorme collezione di numeri, dagli anni 40’ ad oggi) e che vuole raccontare un mondo, quello dei cronisti e farlo risplendere sotto la sua ottica parossistica e fiabesca, mai disposta a scendere a compromessi verso un’industria sempre più votata a sacrificare la scrittura e l’immagine a favore di merchandising e profitti.

E noi a Wes Anderson continuiamo a volere un mondo di bene non solo perché continua a regalarci grandi film come questo, film che “profumano cinema”, come dicevamo in apertura ma soprattutto perché continua ad essere un meraviglioso creatore di fiabe. Quelle fiabe in cui, alla fine, non è la principessa a risvegliarsi ma è il vecchio principe ad addormentarsi, ricordandoci quanto siamo importanti per le persone che ci circondano, anche se non vogliamo vedere gente che piange nel nostro ufficio.