West Side Story (2021): Recensione

West Side Story, recensione del film diretto da Steven Spielberg, tratto dall’omonimo musical. Disponibile su Disney+ a partire dal 2 marzo 2022

VOTO MALATI DI CINEMA 8 out of 10 stars (8 / 10)

Parliamoci chiaro, quando si tratta di Spielberg l’attesa è sempre tanta e le aspettative alte, il cineasta americano racchiude in sé la capacità, più di chiunque altro nel panorama cinematografico mondiale, di conciliare il cinema più autoriale e impegnato con prodotti che siano quanto più fruibili per il grande pubblico. Ricordiamo, infatti, come il suo Lo Squalo sia stato il primo effettivo Blockbuster della storia del cinema a calamitare l’attenzione popolare e far strappare migliaia di biglietti al botteghino.

Detto questo, la sfida non era per nulla semplice: reinterpretare il capolavoro teatrale West Side Story e, inevitabilmente, confrontarsi con la storica trasposizione cinematografica del 1961, un film enorme, monumentale, capace di collezionare dieci Oscar, tra cui Miglior Film, Miglior Regia, migliore attrice e attore non protagonista e migliore fotografia. Nonostante sia ufficialmente il primo Musical per il cineasta statunitense, Spielberg aveva già avuto modo di approcciarsi a questa forma di narrazione attraverso brevi sequenze di famosi film da lui diretti, come per esempio la scazzottata a ritmo di musica nel film 1941: Allarme a Hollywood, che condivide idealmente anche la location di una delle coreografie più riuscite di quest’ultima fatica, il ballo nella palestra.

Il musical di Arthur Laurents, con le parole di Stephen Sondheim e le musiche di Leonard Bernstein, sostanzialmente è una rivisitazione della famosissima tragedia di William Shakespeare trasportata nell’Upper West Side, in cui la furente lotta per il territorio tra due fazioni, gli Sharks, una gang di portoricani, e i Jets, altra banda composta da bianchi di diverse provenienze, fa da cornice ad una fulminea storia d’amore tra due rappresentanti di tali fazioni: Tony (Ansel Egort) e Maria (Rachel Zegler).

Il Piano sequenza iniziale ci trasporta immediatamente negli scenari di una New York degradata, in costruzione e divisa tra molteplici etnie, per cui così affascinante e popolare, intendendo il termine con la sua connotazione più inclusiva di appartenenza del popolo che vi ci dimora. I virtuosismi registi di Spielberg si esprimono in una macchina da presa che si muove in continuazione, segue i personaggi, valorizza le scenografie e viene accompagnata da un montaggio frenetico, al pari della camera stessa, scandito dalle note musicali riadattate per l’occasione da David Newman. I movimenti della mcp sono sinuosi, guizzano tra i palazzi, i cantieri e le pittoresche case portoricane, senza però diventare invasiva, quasi ci scordiamo della sua esistenza, il focus principale e sulla perfetta comprensione di ogni singola minuzia coreografica che accompagna le convincenti prove canore. Questo quartiere di New York è multietnico, Spielberg decide di affidare le parti degli Sharks ad un cast realmente latino-americano, con linee di sceneggiatura che sono interamente in spagnolo e in molti casi neanche accompagnate da sottotitoli, scelta che permette di descrivere meglio la dualità della storia e fornire un maggiore realismo alla pellicola.

Il ruolo del giovane Anton – alias Tony – viene affidato ad un sempre apprezzabile Ansel Egort che in questo caso, oltre ad offrire una buona prova attoriale, si cimenta nell’interpretazione delle parti cantate. La sua amata Maria, invece, viene portata sullo schermo da Rachel Zegler, debuttante al cinema ma capace di bucare lo schermo, la sua versione della ragazza portoricana è affascinante, forte e delicata allo stesso tempo, la giovane attrice riesce perfettamente a trasmettere la lotta interiore che divampa in lei. Il cast di comprimari è straordinario, a partire da Ariana DeBose che si avvicenda a Rita Moreno (Primo Oscar come Migliore Attrice Non Protagonista assegnato a un’attrice latina) che torna romanticamente nel ruolo di Valentina, proseguendo con David Alvarez, nei panni di Bernardo e Mike Faist che interpreta Riff. Le performance dei non protagonisti sono così brillanti e convincenti che, a tratti, riescono perfino a rubare la scena ai due innamorati.

La durata del film è di circa 156 minuti, titoli compresi, ma la bontà del montaggio e l’incalzare della storia permettono di passare le quasi 3 ore di film completamenti rapiti dalla magia di quello che vediamo a schermo. Complice nell’impresa è la fotografia di Janusz Kamiński, storico D.P. collaboratore di Spielberg che si è portato a casa la statuetta per i meravigliosi Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan, che riesce a creare una atmosfera magnetica non solo per l’utilizzo della luce e del color grading – il campio di fotografia e l’utilizzo dei neon nel terzo atto della pellicola è straordinario – quanto per la composizione dell’immagine in camera, il set filmico è studiato nei minimi dettagli e trasmette le vibes di una New York divisa tra culture differenti.

West Side Story è un’opera magnifica che racchiude in sé la forma più pura della settima arte, intesa come connubio di tutte le altre, ogni singolo aspetto è curato e funzionale ad una narrazione mai noiosa e, soprattutto, supportata da straordinarie prove attoriali.