La teoria del tutto (2014): Recensione

La teoria del tutto, recensione del film scritto da James Marsh sulla vita di Stephen Hawking, interpretato da Eddie Redmayne. Uscito nelle sale italiane il 15 gennaio 2015

VOTO MALATI DI CINEMA 7.5 out of 10 stars (7,5 / 10)

La teoria del tutto (The Theory of everything), film diretto da James Marsh sulla vita del noto scienziato Stephen Hawking, interpretato da Eddie Redmayne (The Danish Girl, I Miserabili), il quale nel 2015 si aggiudicò l’Oscar per questa sua formidabile interpretazione.
Il film comincia nel 1963, quando Stephen era un ricercatore presso la Cambridge University. Nonostante lo scienziato fosse totalmente assorbito dalla ricerca di un’equazione che spieghi la nascita del tutto, incontra Jane Wilde (Felicity Jones) di cui se ne innamora. Lui chiederà a lei di andare al ballo, luogo in cui i due si daranno il primo bacio sotto le stelle, sotto l’universo. Sarà il loro amore l’algoritmo che il ricercatore americano stava cercando?
Da quella sera inizia la storia d’amore che verrà ostacolata dalla progressiva malattia neurodegenerativa, l’atrofia muscolare progressiva (“la malattia del motoneurone”). Nonostante la malattia e le difficoltà, Jane decide di restare al fianco del cosmologo. La situazione si fa sempre più critica e lei cercherà anche di prendersi un po’ di tempo per sé, recandosi agli incontri del coro della chiesa dove conoscerà e si innamorerà del maestro di musica. Insomma, un amore che verrà contenuto dall’amore precedente. Stephen, perdendo anche la possibilità di parlare, progetterà un ingegnoso modo per comunicare senza le corde vocali e comprenderà che Jane merita di essere libera e di vivere il suo secondo amore.

Il genere potrebbe essere definito a metà tra una “love story” e un “motivational film” sulla voglia di vivere e sulla straordinaria forza dell’uomo, specificatamente quando è innamorato e ispirato da uno scopo, una meta, alla faccia della natura matrigna e della sua ostinata resistenza ai nostri tentativi di trovare un senso.
Il tema della ricerca e della comprensione del tutto è quello più evidente. Se Jane si fa portatrice di un pensiero cattolico e religioso in cui è Dio ad aver creato l’universo, Stephen dichiara come l’astrofisica sia una religione per atei intelligenti. Simbolicamente tutte le scoperte dello scienziato sono volte a trovare una spiegazione all’inizio, alla nascita dell’universo.

La frase che può racchiudere il senso del film è la seguente, recitata come discorso finale: “è chiaro che noi siamo solo una razza evoluta di primati su un pianeta minore, che orbita intorno ad una stella di medie dimensioni nell’estrema periferia di una fra cento miliardi di galassie…ma fin dall’alba della civiltà, l’uomo si è sempre sforzato di arrivare alla comprensione dell’ordine che regola il mondo. Dovrebbe esserci qualcosa di molto speciale nelle condizioni ai confini dell’universo. E cosa può essere più speciale dell’assenza dei confini? Non dovrebbero esserci confini agli sforzi umani. Noi siamo tutti diversi, per quanto brutta possa sembrarci la vita, c’è sempre qualcosa che uno può fare e con successo. Perché finché c’è vita… c’è speranza!”

una riflessione psicoanalitica sul concetto di mancanza e di tutto nella ricerca della conoscenza

Mi sono interrogato molto sul significato di questo discorso in termini più simbolici e psicologici. La progressione delle conoscenze scientifiche ha l’obiettivo di tendere appunto verso quel tutto, ed è proprio nella condizione umana questa tensione a spiegare e dare risposte alle domande sul senso ultimo. Tuttavia, la condizione umana si scontra con l’assenza di quella comprensione completa o definitiva. Per citare un noto filosofo, Kant, la cosa in sé (lui lo chiamava il noumeno) è un qualcosa di inconoscibile per l’uomo. La conoscenza a cui può tendere è quella che un noto Psicoanalista di nome Bion chiama O- (meno O, dove l’O è appunto quella conoscenza). Questa condizione è quella che si può chiamare mancanza.

È proprio la mancanza che genera quella tensione verso la conoscenza propria della condizione umana.
Ciò vale sia per lo sviluppo scientifico che per la pratica clinica dove l’incontro può avvenire attraverso quella non conoscenza di qualcosa e dove il terapeuta ed il paziente collaborano non per spiegare il tutto, ma per dare un senso a ciò che manca. Cosa manca al protagonista? La malattia gli toglie la capacità di muoversi, la malattia gli toglie “tutto” e quindi gli “manca” tutto. Proprio per tale motivo la tensione del protagonista è proprio quella di spiegare il tutto poiché si sente privato di tutto. Egli è in grado di farlo proprio perché ha l’amore e la speranza. Un punto che critico è quanto si può prendere paradigmatica questa esperienza così specifica e renderla un manifesto universale? Quanti malati di Sla possono sentirsi rappresentati da questa storia?

La teoria del tutto merita in funzione del virtuosismo dell’attore che ha vinto l’Oscar (Eddie Redmayne), ma sia come regia che come sceneggiatura rischia di essere un po’ banale e prevedibile, anche se apprezzo il messaggio di cui si fa portatore.