Darren Aronofsky, da Pi greco a The Whale: La perpetua filosofia di un autore

Darren Aronofsky, da Pi greco a The Whale: La perpetua filosofia di un autore

Da Pi greco a The Whale, un viaggo nel cinema di Darren Aronofsky attraverso le otto pellicole sin qui dirette dal regista e sceneggiatore americano.

Potete amarlo o odiarlo, idolatrarlo o criticarlo, ma Darren Aronofsky è sicuramente uno degli autori più influenti e importanti del cinema contemporaneo, un regista assolutamente non perfetto, nella cui filmografia si riscontrano alti e bassi, ma che, nel bene e nel male, è sempre riuscito a portare avanti la sua idea, la sua filosofia, la sua visione del mondo, così come ogni autore degno di questo nome dovrebbe fare. Le sue opere sono connesse da un unico filo, un unico tema: l’amore, nelle sue sfaccettature più oscure e pure.

La carriera di Aronofsky comincia con questo film, che può, ad un primo sguardo, sembrare il più distante da ciò che sappiamo di lui, ma così non è, il film infatti ci pone davanti ad un personaggio tipico del mondo del regista ovvero l’uomo ossessivo, legato compulsivamente a qualcosa, che sia una persona, una droga o un concetto. In questo caso uno schema matematico, il protagonista infatti cerca tale schema per poter predire le quotazioni in borsa, ma sarà proprio la riuscita nella sua ricerca a condannarlo, a metterlo di fronte persino a Dio. Con questo film non solo il regista ci introduce nel suo mondo, ma ci lascia anche un monito: ci sono cose a questo mondo, dei limiti, che l’uomo non deve oltrepassare.

Requiem for a Dream (2000)

Probabilmente uno dei film più famosi, se non il più famoso, di Aronofsky, non credo esista persona al mondo che, anche inconsapevolmente, non ne abbia ascoltato la colonna sonora. Il film riporta sugli schermi il concetto precedente su un piano ancora più morboso e, purtroppo, realistico, ci mostra degli effetti della dipendenza da droghe e, anche se in secondo piano, dalla televisione. Credo sia il film col quale Aronofsky possa essere approcciato più facilmente perché ci mostra in modo “semplice” il concetto centrale della sua filmografia, appunto l’ossessione, che sarebbe meglio definire con “l’amore verso l’autodistruzione”, che è allo stesso tempo l’amore per se stessi, in cui l’essere umano, per puro egoismo, si lega a ciò che più lo distrugge solo perché, apparentemente gli provoca piacere. E’ il lato più oscuro dell’uomo, l’egoismo come cancro che uccide l’individuo e chi gli sta attorno, portandolo agli atti più inumani; questo avviene ai personaggi interpretati da Jennifer Connelly e Jared Leto, a sua madre addirittura, attratta così tanto dal mondo illusorio dalla televisione, così come il figlio dalle droghe, da sacrificare se stessa per l’ottenimento del suo oggetto del desiderio. Un film più commerciale del precedente, ma che mostra, analizza e critica quella che è la nostra realtà in chiave, non totalmente, iperbolica, così da metterci di fronte all’orrore di cui siamo capaci.

The Fountain (2006)

Terzo film del regista e sicuramente il suo peggiore, egli tira in ballo un’altra tematica attuale, il cancro, immergendoci nella vita di un uomo che sacrifica ogni sua giornata per cercare di salvare la moglie malata. E’ il film più buonista dell’autore, che ha come difetto principale la messa in scena, la fotografia sui toni del giallo non è sicuramente una scelta vincente, così come determinate sequenze in cui dominano degli effetti speciali non ottimali. Alla base però sta la scelta poco originale della tematica trattata che, anche se declinata in modo unico, risulta ridondante. Niente più che un’occasione sprecata, ma che ha comunque dei concetti fondamentali, qui infatti l’amore, l’ossessione, vengono letti sotto una chiave più positiva, in cui l’uomo sfida l’immortalità per salvare la persona amata.

The Wrestler (2008)

Uno dei migliori film in assoluto del regista: niente Dio, niente droghe, solo un uomo alle prese con se stesso, con la sua leggenda decaduta, un’opera che scalda e allo stesso tempo spezza il cuore per la sua sincerità. Questo film è ciò che Aronofsky avrebbe dovuto mostrarci con The Fountain, il sacrificio di un uomo per amore, tanto per sua figlia quanto per la sua passione, un film che, per chi l’ha visto, sembrerà un antefatto di The Whale e in effetti lo è: un padre che scende a patti con i propri errori, con le proprie le colpe nel momento in cui non gli rimane che affrontare il suo ultimo avversario, la morte. Randy è un eroe tragico, perché questo film non è una favoletta, ma la tragedia di un uomo che vede respinto il suo amore nonostante i suoi tentativi di redimersi e che va incontro al suo destino a testa alta, perché è l’unica scelta che ha; non è l’amore di sua figlia ma quello dei fan che gli rimane e così ne prende atto e va incontro alla sua disfatta come se fosse un trionfo, abbracciando una triste gloria, alzandosi in piedi tra la folla urlante in una vittoriosa sconfitta.

Il cigno nero (2010)

Un altro dei film più famosi in questo marasma; distruggente e distruttivo, morboso ed inquietante, questo è Il cigno nero, un’opera oscura che analizza anche più di quanto fatto con i film precedenti, dalla competizione ossessiva alla continua tensione sessuale, il tutto sormontato dal peso delle aspettative, le nostre e di chi ci circonda. Colpisce la messa in scena simbolica, metaforica, soprattutto nel finale, con l’effettiva trasformazione in cigno nero, essa ci permette di percepire la pressione a cui Nina (Natalie Portman) è sottoposta, una pressione che le spezza le ossa impedendole di agire lucidamente e così il film ci cala nelle sue allucinazioni, nelle sue fantasie erotiche, nella paura della sconfitta. Non solo l’ossessione del palcoscenico, dell’attenzione dei riflettori, ma la paura di deludere la propria madre, il proprio maestro, cercando di arrivare prima tra le ballerine e tra le persone, questo fa di Nina un’eroina tragica come Randy. Più di ogni altra cosa l’uomo aspira alla vittoria, alla realizzazione dei propri sogni ed è questo che lo distrugge, che lo porta a consumare se stesso e a logorare la propria anima nella strada verso il successo, è quasi come se i protagonisti di Aronofsky fossero tutti degli Achille, pronti a sacrificare se stessi pur di ottenere la gloria.

Noah (2014)

Dio torna al centro del discorso in questo colossal del 2014, dirigendo un cast stellare Aronofsky ci racconta del suo punto di vista sulla storia biblica, tirando in ballo il rapporto dell’uomo con Dio e con i suoi simili. Noah (Russell Crowe) è un uomo benedetto e afflitto dal compito che gli è stato assegnato, lungo la strada verso il compimento del suo dovere sarà colpito dai continui dubbi che lo porteranno alla ricerca di una saggezza che non sempre è convinto di avere, ma che mostra ad ogni sguardo che rivolge alla sua famiglia, solo per poterla salvare. “Chi sono gli innocenti? Chi sono io per scegliere? Per giudicare? Decidere? Io sono innocente? E la mia famiglia?”, sono queste le frasi che rimbombano nella testa di Noah per l’intera durata della pellicola, egli arriva a metter da parte, in alcuni momenti, la sua umanità pur di fare il volere di Dio, finendo col mettere in dubbio la sua autorità per amore della propria famiglia, che si rivelerà amore verso Dio stesso. La sua famiglia non è da meno, è come se con questo film Aronofsky volesse dare un quadro generale dell’umanità, prendendo pochi personaggi eletti a rappresentanti di tutti noi, c’è chi fin dalla nascita ha la vita benedetta dall’amore del prossimo e chi, come Cam (Logan Lerman), è condannato alla solitudine fino alla fine e questo lo rende uno dei personaggi migliori dell’intero film; la sua ricerca di un luogo che sente come casa, l’anelare ad un amore che è convinto di meritare, il conflitto con la famiglia e il disperato tentativo di affermare se stesso fanno di lui un personaggio quanto mai realistico, la rappresentazione più nitida delle controversie dell’uomo, visto, tramite lui, come una creatura mista di luce ed oscurità, condannata alla tentazione ma con la scelta di non cedere. Sullo sfondo di questa tragedia familiare si annida l’umanità, i reietti giudicati colpevoli da Noah e da Dio, che incarnano il lato peggiore di noi: l’egoismo, la vendetta, la crudeltà più abominevole in favore della sopravvivenza, è qui che Noah viene messo a confronto con la sua controparte, Tubal-cain; i due leader declinano le medesime scelte in modi diversi, se Noah vuole sinceramente salvare la sua famiglia, gli innocenti, Tubal-cain non ha rimorsi nel salvare solo se stesso. I pregi e i difetti, la paura e il coraggio, luce e oscurità, generosità ed egoismo, amore e odio; ecco cosa Aronofsky dipinge sulla sua tela: le nostre contraddizioni, quell’umanità che riesce a renderci buoni quanto malvagi.

Un film a tratti complesso, definito capolavoro e il suo estremo opposto, ma esso non rappresenta che un cambio di prospettiva. Se fino ad adesso avevamo vissuto le ossessioni di un personaggio dall’interno, qui siamo più che mai degli spettatori, osservando ciò che la malattia aronofskyana dei protagonisti causa ai loro cari, il che ci rende vittime in egual modo. E’ attraverso madre (Jennifer Lawrence) che vediamo di cosa sono capaci il narcisismo e la tracotanza di un uomo, cosa accade nel momento in cui si ama qualcuno che ama più se stesso e l’immagine di sé piuttosto che il proprio compagno, è questo che vive madre nel momento in cui due estranei mettono piede nella sua casa idolatrando il marito, che si crogiola nell’ammirazione mettendo da parte il suo amore sincero per quello della folla. Se nei film precedenti assistevamo ad una tragica gloria causata dall’amore, qui vediamo cosa accade nel momento in cui la gloria è totale, nel momento in cui è priva di sacrificio, di amore, anche non ricambiato, e questo causa un sacrificio ma nella sua accezione più letterale e negativa, quello dei propri cari per l’individualità, per l’egoismo, l’amore diviene qui un peso per coloro che non sono in grado di apprezzarlo. Per quelle persone che guardano solo al proprio tornaconto, ai propri desideri, esso è un intralcio, qualcosa di poco valore che può essere ritrovato a proprio piacimento, negando l’unicità del partner e dei sentimenti che prova. E’ un’opera opprimente, delirante, senza raggi di luce, in cui l’amore perde e l’egoismo prevale.
the whale
Un atto d’amore, o meglio, la rappresentazione di un atto d’amore. Questa pellicola ci pone davanti all’infinità di incertezze, di paure, di dubbi e ostacoli che possono presentarsi nella vita di qualsiasi individuo, è un affresco di cosa l’umano può sopportare e di cosa riesce a compiere nonostante il dolore che lo affligge. Charlie non è Moby Dick come vogliamo credere. Charlie è Ismaele, è Achab, è l’uomo messo davanti ai suoi errori, alle sue illusioni, alla morte, tramite i suoi occhi viviamo e sentiamo la sua solitudine, una solitudine che egli stesso sembra voler credere essere nata dalla sua condizione, ma la cui causa non è altro che egli stesso, così come egli è la causa della sua lontananza dalla figlia, così come è, ancora, la causa del suo destino ormai segnato. Aronofsky non tenta solo di dirci, come nelle sue opere precedenti, che l’essere umano tende ad amare ciò che lo distrugge, ma che siamo noi stessi la causa della nostra disfatta e che, allo stesso tempo, possiamo essere la ragione della nostra salvezza, così è per Charlie, che di fronte alla morte decide di fare un ultimo atto d’amore verso sua figlia, cercando di salvarla e, in questo modo, di salvare se stesso, redimendosi. Ogni elemento del film punta in questa direzione, preponderante è la colonna sonora, che accompagna i pesanti passi del protagonista e che ci fa da guida attraverso i suoi sentimenti e la sua angoscia, perché la musica è un misto di disperazione, tristezza ma, allo stesso tempo, trionfo, redenzione appunto, quel suono dirompente è un faro che ci mostra come nonostante i peccati commessi, c’è possibilità di salvezza, se solo la si sceglie. Non è un film che cerca di strappar via le lacrime con la forza, ma di suscitare delle riflessioni: “Dov’è la verità? E’ in ciò che io penso, in ciò che io ho visto? Oppure sto semplicemente mentendo a me stesso?”, questo è il vero peso che Charlie si porta addosso, non quello del suo fisico, ma quello della sua anima e delle sue colpe, la più grande quella di aver detto no alla vita per non aver, secondo lui, salvato qualcuno, ed è una scelta che egli sarà portato a compiere ancora e che potrà avere valore solo tramite ciò che egli, per tutta la durata del film, cerca disperatamente: la sincerità e solo tramite essa egli riesce ad apprendere e ad insegnare la sua più grande lezione, che è tale anche per noi: vivere significa amare ed essere amati, significa sentire, provare, amarsi appunto, dando così un nuovo significato alla frase “fare l’amore”, che diviene qui “salvarsi l’un l’altro, per salvare anche se stessi”, solo così Charlie può alzarsi e camminare, solo così può lottare contro il peso che lo schiaccia e così possiamo anche noi. Chiudo con quella che, secondo me, è forse la frase più emblematica del film, che rispecchia ogni singolo personaggio, persino quelli fuori schermo: “Non credi che le persone siano incapaci di non amare?”, questo è il ritorno di Aronofsky, questo è The Whale, non un messaggio smielato ma una verità nascosta in piena luce, amare ci rende persone, amare ci rende più che semplici animali.